Ho letto con emozione ed empatia L’età del transito e del conflitto. Bambini e adolescenti tra guerre e dopoguerra 1939-2015 (Il Mulino, 2016). Curato da Maria Bacchi e Nella Roveri, è un libro poderoso, ricco, frutto di anni di lavoro e di riflessione maturati nei seminari che da sette anni, ogni anno, si sono tenuti a Nonantola organizzati dalla Fondazione Villa Emma, con un titolo estremamente evocativo: Le strade del mondo. Ho avuto l’onore e il piacere di partecipare ad alcuni di questi seminari dove il cuore, la testa, il corpo, in armonia tra loro, dialogavano rimarginando ferite, aprendo piste di riflessione e di ricerca inediti e stimolanti.
Sono arrivata a Nonantola perché conoscevo Maria e Fernanda con le quali ho condiviso anni di appassionata ricerca didattica per dare un senso alla storia insegnata a partire dalla soggettività, dalla relazione e dall’ascolto reciproco, per dare un nome e un volto alle oscure forme della storia soprattutto delle donne, escluse (ma non solo loro, anche i neri nelle democrazie occidentali nascenti) dalla cittadinanza in un gioco perverso di inclusione/esclusione.
In questo libro l’eredità del femminismo del partire da sé, della parola data e ricevuta, del valore della memoria individuale per un progetto collettivo di riflessione sul presente, resa attiva già nelle proposte di formazione di insegnanti, qui diventa metodo di ricerca e strumento di indagine per cogliere i nessi tra una storia del male (colonialismo, totalitarismi, Shoah, genocidi, guerre postcoloniali, nuovi lager) e una storia del bene, del sangue salvato dei bambini ebrei di Villa Emma e del sangue salvato di adolescenti in transito, provati dalla violenza della guerra e dalla ferocia postcoloniale del neocolonialismo dei nuovi lager, dei nuovi muri.
Non solo denuncia ma anche una proposta di salvezza, una speranza, che proviene da esperienze di accoglienza fondate sul rispetto della persona, dell’ascolto dei suoi desideri e non solo dei suoi bisogni, che parte dalla parola, dalla narrazione di sé, dei propri traumi, per trovare una lingua comune con cui leccarsi le ferite e rimarginarle senza vittimismi. Il dialogo non è solo l’obiettivo, è un mezzo euristico per scovare la propria identità smarrita, ritrovare strade nuove facendo i conti con il proprio passato. Dolore e speranza si coniugano come in una seduta terapeutica dove la fatica del dire ha una sua ragione nell’indicibilità del dolore dell’esperienza vissuta che solo raccontata e rivissuta può essere emendata. Non a caso il libro si chiude con le parole di una psicoanalista, Donatella Levi, ancora una bambina ebrea sopravvissuta, che ci mette in guardia sia nei confronti del silenzio e delle rimozioni dei conflitti vissuti sia nei confronti di una memoria troppo greve che non passa.
Il dialogo educativo svolge un compito fondamentale nel dare voce e volto ai nuovi muslims per renderli veramente persone. Samuel, Elvira, Edith, Gen la cui infanzia è stata violata e rimossa ritrovano le parole, le immagini per raccontarla, per espiare la colpa di essere sopravvissuti. Un racconto il loro che tocca profondamente tutti coloro che hanno subito una perdita e che per ragioni diverse hanno perso una terra, un’infanzia, una casa dove è impossibile tornare perché chi va non torna più, perché luoghi e persone cambiano nel tempo e non si torna nello stesso luogo. Per questo l’infanzia è indicibile non raccontabile, è solo ciò che la memoria ci permette di ricordare con tutti i suoi tradimenti e inganni.
Presentare il libro è un pretesto per continuare il dialogo tra coloro che queste esperienze hanno vissuto e rielaborato: testimoni, educatrici, psicoanaliste, sociologhe, operatori e operatrici sociali.
Concetta Brigadeci
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