Emma Fighetti Quinteri, partigiana milanese. Durante il fascismo trasformò il suo laboratorio di sartoria in una base per le attività sovversive contro il regime e in un nascondiglio per disertori e combattenti.
Ci è mancato quel ricordo. Come ci sono mancate tutte le persone che questo tempo ci ha portate via.
E’ un giorno di sole, da correre in piazza, stringendoci nella ressa di una Liberazione nuova, sotto a un palco.
Ci manca un corteo. E quelli che allora c’erano ad aprirla. E le parole di chi ci ricorda che combattere è di ogni giorno e che ricordare in Festa porta energie per farlo.
Questa è la lettera che avevo scritto per l’iniziativa del 26 febbraio all’Unione Femminile Nazionale a Milano, dedicata ai Gruppi di Difesa della Donna – Milano 1943-1945, promossa da ANPI, IRIS, Unione Femminile Nazionale. Comune di Milano – Milano cultura – Milanosifastoria. Quel 26 febbraio rubato.
Ermanna Mandelli, nipote di Emma Fighetti Quinteri (Milano, 20 aprile 2020)
Oggi come allora.
Si combatte una guerra occulta di potere nelle stanze decisive che presiedono al comando, alla salute, negli atenei come tra le poltrone di palazzo.
Oggi come allora, per una donna è difficile trovare posto a sedere.
E, più ancora, trovare dignità, considerazione, una stima scevra dal suo essere donna. Resta ovunque, in qualche parte della coscienza storica, sedimentata e collettiva, un oggetto appetibile o da demolire, un avversario da abbattere o da sedurre.
Mai da ascoltare.
Da ascoltare nella sua diversità, nell’alterità della sua visione razionale ma sensibile, stratega senza perdere la pietà, combattente senza dimenticare i figli nei figli del nemico, capace di coniugare morte e maternità, vita sempre da difendere, vita che costa – attesa, dolore, parto – che ha un valore supremo, oltre la divisa, oltre il colore.
Oggi come allora, siamo soggetti fragili, moneta di scambio, favori da ripagare in natura. Tracce di pensiero stancano, sono come la polvere che adombra i mobili, spegne l’attrazione della forma, l’appesantisce di contenuto.
Quelle donne in bicicletta, vestite con l’eleganza di una sfilata e la dignità di una rivoluzione costosa di uomini, figli, paure, rappresaglie, coraggio e incoscienza, coi cartelli che anticipano una rivoluzione ancora da farsi – “Gruppi di difesa della donna” – una liberazione nella Liberazione, sono la fotografia di un passato che ha in mente un futuro che ancora deve arrivare. Ancora oggi, ci sarebbe bisogno di loro. Della loro determinazione, della chiarezza di intenti, della fiducia ferma nel cambiamento. Ci sarebbe bisogno oggi della loro dignità, di quei cappotti abbottonati a doppio petto – perché le donne hanno bisogno di difendersi il cuore – di quei cartelli sollevati in mezzo ai carri dei tedeschi in fuga, di quel sorriso spregiudicato, di quel temerario attaccamento alla vita, di quella coesione femminile, consapevole, tesa e unitaria, ardente, gioiosa.
Quelle donne di intelligenza e coraggio, che saltavano con le gonne sulle bici per chilometri in mezzo alle campagne gelide e nebbiose della pianura, piene di esplosivi in un paniere, che bastava un sasso di traverso per non tornare più, che hanno cucito una trama sommersa e resistente di un sostegno portante, di muri maestri fatti di silenzi e gesti, innalzati giorno per giorno, quelle donne mi mancano.
Mi manca mia nonna. Il suo inossidabile sorriso. Il suo ostinato sole dell’avvenire sempre al bello, sempre di primavera, quotidianamente grato per le piccole cerimonie di ogni giorno che santificano un piatto di riso giallo o le lenzuola fresche asciugate al sole per la notte. Una gratitudine costante alla vita, nei suoi dettagli minuti, là dove è sempre possibile, per chiunque, trovare un po’ di conforto: la convivialità di un pasto, una partita alle carte, una musica per ballare, una canzone in bocca. Quando hai passato anni dove affacciarsi alla porta poteva diventare pericoloso, poter cantare ad alta voce è un lusso. Di lei ricordo come rideva. L’ironia geniale che le faceva guadagnare giorni alla vecchiaia. Non è mai stata vecchia. Tranne quando la medicina ha deciso che lo sarebbe diventata. Ma prima di allora, lei non è mai stata vecchia. E’ stata una sovversiva – così voleva essere definita – una sovversiva gaudente che mi ha insegnato cosa conta davvero.
Quelle donne – eroine del quotidiano, eroiche anonime militanti – nella loro coscienza di donne, curve di responsabilità e perdite, eppure tese di ideali e sogni, coi loro cartelli di speranza e i loro cappotti di prudenza, che io ho conosciuto, che incontravo tutte in casa della nonna, quando la guerra era finita perciò ogni giorno era buono per fare festa, perché ogni cosa era libera e liberata… ecco io le vorrei rivedere oggi invadere il mondo. C’è ancora bisogno di loro. Che erano carne e pensiero, dignità, lotta, madri e compagne, che sapevano la vita e quel tanto che serve davvero.
Nel momento più buio dell’umanità, quando sadismo, male, derisione, crudeltà, superbia, odio e tutte le più torbide tenaglie del pensiero malato sventolavano ossessive la carie dell’anima, la Resistenza incognita degli uomini faceva saltare ponti, tralicci e ferrovie, quella delle donne faceva saltare i nervi al potere, faccia a faccia ogni giorno col nemico. Ferme ai posti di blocco, feline compiacenti con un sorriso più esplosivo della vendetta arrotolata nella canna della bici.
E’ quel sorriso spregiudicato, coraggioso e intelligente che mi manca.
Mi manchi nonna.
Grazie Emma.
Ermanna Mandelli
Discorso dal balcone della Casa del Popolo di Milano, 26 aprile 1945
Ho cercato di riscrivere il discorso che mia nonna, Emma Fighetti Quinteri, fece dal balcone della Casa del Popolo di Milano la mattina del 26 aprile del 45. E’ stata la prima persona che ha parlato quella mattina. Ed anche la prima donna. Si è fatta trovare lì, al balcone, al momento dell’arrivo della delegazione – tutta maschile – per le celebrazioni di quella storica mattina. “Tu cosa fia lì?” “Sono qui per fare il discorso”. Era il discorso che si era scritto durante tutta la notte del 25 aprile. Erano imbarazzati: non si poteva mandare via una compagna che tanto aveva lottato, ma anche permettere che il primo discorso lo facesse una donna… Ma ha vinto lei. Il suo fu un discorso di botta e risposta. “Volete voi la guerra?” E da sotto: “No!” e così via. Nel frattempo arrivavano i partigiani della Val D’Ossola, con le loro divise.
Ermanna Mandelli
Ho cercato di riscriverlo, così come lei me lo ha raccontato, perché lo aveva stracciato dopo averlo fatto. C’era l’eccitazione della giornata e la ricerca di quelli che si andavano nascondendo. Per lei fu un giorno in cui si vide proteggere e liberare un fascista che avevano arrestato. Non ha mai smesso di combattere.
Link per approfondire
http://www.deportati.it/static/pdf/TR/2006/1-2/34-43.pdf