Vogliamo ricordare bell hooks, femminista e militante afro-americana, intellettuale indisciplinata, rilanciando un suo articolo pubblicato sulla rivista «Lapis» nel 1996 (il che è anche una buona occasione per segnalare che tutta la rivista è disponibile online). L’articolo, che si intitola “Sfida al sessismo nella vita dei neri”, è un’analisi dei meccanismi di dominio patriarcale nella vita delle donne e degli uomini afro-americani ed individua nella decostruzione della maschilità e nel rinnovamento della famiglia un punto chiave della lotta di liberazione dal razzismo.

Qui il link al numero 29 (1996) della rivista, disponibile gratuitamente in formato pdf sul sito della Biblioteca delle donne di Bologna https://bibliotecadelledonne.women.it/fascicolo/lapis-n-29-1996-03/

Il saggio qui proposto è tratto dal volume Killing Rage, Ending Racism, Henry Holt and Company, New York 1995. Ne è autrice l’africana-americana bell hooks, docente presso il City College di New York, attivista e studiosa, a cui si devono vari e importanti testi femministi, tra cui “Ain’t I a Woman: Black Women and Feminism” (1981) e “Sisters of the Yam: Black Women and Self-Recovery” (1993). A ridosso della Million Man March, la marcia per soli uomini indetta dal leader musulmano nero Louis Farrakhan e tenutasi il 16 ottobre scorso a Washington, ci è parso importante pubblicare un testo teorico-politico che mostra senza mezzi termini come oggi, all’interno della comunità africana-americana, il minatissimo intreccio tra asse di genere e asse razziale abbia portato allo scoperto contraddizioni non più tacitabili e che ci riguardano tutte.

New York, attivista e studiosa, a cui si devono vari e importanti testi femministi, tra cui “Ain’t I a Woman: Black Women and Feminism” (1981) e “Sisters of the Yam: Black Women and Self-Recovery” (1993). A ridosso della Million Man March, la marcia per soli uomini indetta dal leader musulmano nero Louis Farrakhan e tenutasi il 16 ottobre scorso a Washington, ci è parso importante pubblicare un testo teorico-politico che mostra senza mezzi termini come oggi, all’interno della comunità africana-americana, il minatissimo intreccio tra asse di genere e asse razziale abbia portato allo scoperto contraddizioni non più tacitabili e che ci riguardano tutte.

Il movimento femminista contemporaneo ha avuto scarso impatto positivo sulla vita dei neri degli Stati Uniti. Nelle comunità nere il tentativo di educare a una coscienza critica capace di coinvolgere i neri nelle politiche del femminismo – e nel significato di tali politiche per le nostre esistenze – non si è mai svolto su una base di massa. Per ironia, soltanto ora un certo numero di nere sta iniziando a fare proprie alcune ristrette nozioni di femminismo (ad esempio, che le donne siano vittime e gli uomini oppressori/nemici), molto tempo dopo che queste stesse idee sono state messe in discussione dal pensiero femminista rivoluzionario, assai più interessato a capire come sessismo e oppressione sessista siano perpetuati e mantenuti da tutti noi, non solo dagli uomini. Pur continuando a essere un problema serio, il dominio maschile non può essere l’unico centro d’interesse del movimento femminista. Singole donne nere sono riuscite a galvanizzare criticamente l’energia contro il sessismo maschile nero in occasione delle udienze contro il giudice Clarence Thomas (che, nel 1992, fu accusato di molestie sessuali dalla sua assistente, l’avvocatessa di colore Anita Hill, N.d.T.) e del caso contro Mike Tyson (denunciato per stupro, sempre nel 1992, dalla nera Desirée Washington, N.d.T).

Questi avvenimenti hanno funzionato da catalizzatori meglio di qualsiasi scritto femminista, permettendo all’opinione pubblica di riconoscere che il sessismo è un problema nella vita dei neri. Tra le accademiche di colore, occuparsi di questioni di genere è spesso una mossa opportunistica per ottenere avanzamenti professionali. Non diversamente da altre professioniste, a loro interessa mettere in discussione le diseguaglianze di genere principalmente quando sono d’intralcio alla loro carriera. È raro che leghino il loro problema al femminismo rivoluzionario che cerca di trasformare la società e prevede una critica radicale di razzismo, capitalismo, imperialismo e sessismo. Queste donne fanno quindi assai poco per condividere attivamente il pensiero e la pratica femministi con altre persone di colore. Si fanno sentire solo nei momenti di crisi, ad esempio durante il processo Thomas, difendendo la causa di chi è stato trattato ingiustamente e rinforzando l’idea che il femminismo in realtà non sia niente di più che una risposta alle azioni degli uomini. Invece di creare spazi dove, nella vita dei neri, il femminismo possa guadagnare rispetto, le nere ancor fresche di conversione ad un semplice femminismo liberal riformista di solito amplificano gli antagonismi tra uomini e donne di colore.

Il femminismo rivoluzionario non è anti-uomini. Esso abbraccia una critica del patriarcato che include la comprensione di come le vite dei maschi di colore siano minacciate dall’adesione e dalla partecipazione acritica al patriarcato. Sfortunatamente i pensatori neri impegnati in una critica del patriarcato e sul fronte della creazione di una teoria femminista sono ancora troppo pochi. La nostra capacità collettiva di capire i vari modi in cui sessismo e oppressione sessista operano come sistemi di dominio nella vita dei neri continua a essere limitata. Per lo più la discussione si ferma ai temi dell’abuso di cui i maschi di colore sono gli agenti e le donne di colore le vittime. Purtroppo, quando scrivo di femminismo e negritudine, mi trovo di continuo costretta ad affermare che una delle barriere che maggiormente menomano la capacità di noi neri di sfidare collettivamente sessismo e oppressione sessista è l’equazione tra liberazione nera e sviluppo di un patriarcato nero. In queste pagine, voglio ampliare la mia critica in modo da far comprendere come i nostri sforzi per creare una nuova lotta di liberazione nera siano seriamente intralciati dal fatto che in vari ambienti neri prevale la convinzione che ciò che ci serve siano dei patriarchi a cui affidarci, che la nostra stessa capacità di progredire dipenda da una forte leadership maschile nera. Ciò conduce non soltanto alla completa soppressione delle voci femminili femministe nere e delle visioni che potrebbero darci la guida e la direzione di cui abbiamo bisogno, ma spinge e incoraggia la nostra gente a accettare acriticamente che i maschi neri che si comportano da “potenti patriarchi” siano gli unici portatori del sapere di cui abbiamo bisogno. Tale convinzione è ben accetta anche tra i bianchi, spesso assai più inclini ad ascoltare i maschi neri che si dichiarano in forma patriarcale piuttosto che gli altri. Né il sessismo maschile nero li disturba poi tanto (e questo vale soprattutto per le donne bianche). Sembra infatti che per i bianchi (come per molti neri) tra mascolinità nera e asserzione di valori e forme di pensiero sessisti ci sia un’assoluta identità. Dal diciannovesimo secolo a oggi non vi è testo di pensatore e scrittore maschio nero che tenti di influenzare e modellare la natura della vita delle nostra gente senza farsi anche portavoce del patriarcato. La loro opera dimostra fino a che punto essi credevano che lo sviluppo di un patriarcato nero fosse essenziale al progresso della razza. Si leggano Delaney, Du Bois, Douglass, Garvey, Cleaver, George Jackson, King o Malcolm X: spesso essi suggeriscono che le ferite inferteci dalla supremazia dei bianchi si rimargineranno non appena i maschi di colore si affermeranno non come soggetti liberi e decolonizzati attraverso la lotta ma come “uomini”. Se in tempi più recenti accademici e intellettuali maschi di colore fanno, nella loro opera, veri e propri atti d’ossequio alla critica del sessismo (spesso, come la loro controparte femminile borghese, a puro fine di carriera qualsiasi maschio di colore che si dichiari a favore della fine del sessismo appare unico, speciale), è raro che, nella loro vita professionale o privata, essi modifichino i loro comportamenti tanto da dimostrare di aver ripudiato il patriarcato o i modi sessisti di pensare ed essere. L’unica eccezione è rappresentata dalla vita e dalle opere dei gay neri, ad esempio di Joseph Beam e Essex Hemphill.

Va fatta una distinzione tra la visione maschilista ottocentesca di un patriarcato nero che affonda le sue radici nella nozione che i maschi neri devono guidare la lotta per l’avanzamento della razza, darsi un’educazione e provvedere alle famiglie in quanto capi dell’unità domestica e una visione più contemporanea della mascolinità nera, in grado di riconoscersi e darsi un’identità principalmente attraverso il dominio sulle donne. Questo spostamento da un atteggiamento patriarcale benevolo all’affermazione di un dominio bruto rappresenta una differenza cruciale tra il pensiero radicale ottocentesco dei leader neri e le loro controparti contemporanee. Discutendo di politiche di razza e di genere in The Black Atlantic, il critico e teorico nero inglese Paul Gilroy suggerisce che oggi “il genere sia la modalità in cui viene vissuta la razza”. Questa affermazione riprende la critica femminista nera che invita a analizzare con attenzione i modi in cui l’equazione tra liberazione nera e mascolinità nera promuova e ammetta il sessismo maschile nero.

Nel contesto del patriarcato capitalista suprematista bianco un individuo può affermare la propria virilità semplicemente dimostrando di avere il potere di controllare e dominare le donne. Date tali condizioni, ai maschi di colore non viene richiesto di diventare capaci di provvedere e proteggere per essere “uomini”. Piuttosto, come sostiene Gilroy, “una mascolinità amplificata e esagerata è divenuta il chiassoso pezzo forte di una cultura della compensazione che coscientemente mitiga la miseria dello spossessato e del sottomesso”. Nel mio primo libro, Ain’t I a Woman: Black Women and Feministri, ho sostenuto lo stesso concetto in forma ancor più diretta, suggerendo che l’integrazione razziale ha creato un contesto sociale in cui la gente di colore è stata ben contenta di buttare alle ortiche i modi oppositivi e binari di pensare e essere, considerati necessari all’epoca del lavoro per i diritti civili. Convinti di aver ottenuto ciò per cui avevamo lottato (uguali diritti per i neri), ecco che affermiamo la nostra nuova libertà aderendo in modo acritico alle forme di socializzazione ai ruoli di genere imposte dalla cultura maggioritaria. In epoca di integrazione i maschi neri non affermano la soggettività maschile sfidando con spirito vigilante la supremazia bianca, ma enfatizzando soprattutto la subordinazione delle donne, in particolare delle donne di colore. All’improvviso i maschi di colore, che all’interno della struttura capitalistica non hanno alcuna speranza di accedere a posizioni lavorative che permettano loro di provvedere alle famiglie, possono sentirsi comunque veri “uomini”. La mascolinità è stata ridefinita. Mascolinità non è provvedere e proteggere: la si dimostra mostrandosi capaci di opprimere, controllare, dominare.

Questo slittamento ha, più di qualsiasi altro, provocato una crisi tuttora irrisolta nella vita dei neri. Tra uomini e donne di colore sono venute a galla una tensione e un’ostilità senza precedenti. Molte donne nere credono che questa crisi si risolverebbe se i maschi di colore assumessero il ruolo di patriarchi benevoli, capaci di proteggere e provvedere. Educate alla fantasia democratica che c’è lavoro per tutti, esse non riescono a capire che la disoccupazione o la sottoccupazione nera maschile massificata è indispensabile al mantenimento del nostro attuale sistema economico e non capiscono che non verrà mai il giorno in cui tutti i maschi di colore che lo vogliano potranno lavorare e provvedere alle famiglie. Molti uomini di colore e persino alcune donne di colore credono che la crisi si risolverebbe se le nere semplicemente accettassero uno status subordinato a prescindere dal fatto che i loro uomini lavorino o meno. È questo, senza alcun dubbio, il messaggio contenuto nel best seller di Shahrazad Ali, The Blackman’s Guide to Understanding the Blackwoman: “Quando la Donna nera accetterà il suo posto di regina dell’universo e di madre della civiltà, il Maschio nero rigenererà i poteri a cui non ha avuto accesso per più di quattrocento anni”. Presumere che il patriarcato nero possa redimere la razza, risolvere tutti i nostri problemi, è pura fantasia. Non dobbiamo far altro che analizzare in modo critico la vita e l’opera dei maschi neri che hanno raggiunto lo status di patriarchi rispettati per scoprire che la loro conquista del diritto di esercitare il potere patriarcale in casa e sul posto di lavoro non ha portato e non porterà alla rivitalizzazione della razza e neppure a un miglioramento della qualità della vita di uomini, donne e bambini di colore. Gilroy affronta le stesse questioni di cui ho scritto nei miei saggi femministi, soprattutto in Reconstructing Black Masculinity, pubblicato nel volume Black Looks, in particolare là dove indica i pericoli che si corrono quando “l’integrità della razza” diventa “interscambiabile con l’integrità della mascolinità nera”. “Il che”, suggerisce lo studioso “dà come risultato una situazione in cui la crisi sociale ed economica di intere comunità diventa assai più facilmente comprensibile a coloro che ne sono prigionieri come una protratta crisi della mascolinità. Senza voler sminuire le lotte sul significato della mascolinità nera e sulle sue conseguenze talvolta distruttive e anticomunitarie, sembra importante valutare i limiti di una prospettiva che cerca di restaurare la mascolinità piuttosto che lavorare con intelligenza al fine di trascenderla”. La mascolinità non va assimilata a una nozione sessista di virilità.

Se la gente di colore prendesse in seria considerazione la critica femminista che propone di interrogare la mascolinità patriarcale per vedere in che forme sia stata e sia distruttiva per i maschi di colore, ci applicheremmo a ripudiare tale mascolinità e a ridefinirla in termini più vitali. Come abbiamo sentito il bisogno di riconcettualizzare la negritudine in modo da liberarci del razzismo che avevamo interiorizzato e che ce la faceva considerare in termini esclusivamente negativi, dobbiamo ripensare il nostro modo di intendere sia la mascolinità sia la virilità. Il libro di Richard Major Cool Pose esemplifica il tentativo di uno studioso di colore di mettere in discussione alcune idee distruttive che i maschi neri hanno di sé e della propria identità. Scritto a quattro mani con una studiosa bianca, il libro risulta utile, anche se non sposa un punto di vista femminista. Non diversamente dal lavoro di Robert Bly, il volume di Major propone delle strategie che gli uomini di colore possono utilizzare per essere in contatto con le loro sensazioni, i loro desideri, i loro bisogni, eccetera, senza sfidare il patriarcato. Sottesa al lavoro di Major è la presunzione che il patriarcato, se benevolo, non costituisca un problema. Per quanto critico nei confronti della violenza maschile nera, lo studioso non collega tale violenza allo sforzo di adeguarsi all’idea di virilità definita dal sessismo. La vistosa mancanza di un qualsivoglia riferimento al lavoro delle femministe di colore, persino quando le argomentazioni non sono molto dissimili dalle loro, indica il desiderio di Major di dissociare il suo lavoro dal nostro. Un vero peccato.

Poiché uomini e donne di colore non possono risolvere il dilemma che attanaglia le loro esistenze attraverso la creazione di un forte patriarcato nero, se molti di noi smettessero di aderire alla fede utopica che questa sia la “risposta” ai nostri problemi, potremmo collettivamente cominciare a pensare a diversi modelli di cambiamento nella nostra vita. Persino al suo meglio, il paradigma patriarcale come modello di organizzazione sociale mette a repentaglio l’unità della famiglia e della comunità. Contare su una singola figura di autorità maschile è pericoloso perché crea un clima di autocrazia in cui le politiche della coercizione (di cui la violenza fa parte) vengono usate al fine di mantenere tale autorità.

Se partiamo dalla premessa che la lotta di liberazione dei neri, e tutti i nostri sforzi di autodeterminazione, si rafforzano quando uomini e donne partecipano da pari alla vita di tutti i giorni e allo scontro, è chiaro che non possiamo creare un clima culturale dove queste condizioni esistano senza prima occuparci della definizione di un progetto e di parole d’ordine femministi riferiti specificamente alla vita della gente di colore, che si diano come obiettivo la fine del sessismo e dell’oppressione sessista all’interno delle nostre comunità. Perché questo piano di lavoro proceda occorre che ripensiamo le nostre nozioni di mascolinità e femminilità. Invece di continuare a pensarle in contrapposizione l’una all’altra, dotate di caratteristiche “intrinseche” e differenti, dovremmo riconoscere le diversità biologiche senza considerarle come il marchio di specifici tratti caratteriali. Vorrebbe dire smetterla di pensare che sia “naturale” che i ragazzi siano forti e le ragazze deboli, che i ragazzi siano attivi e le ragazze passive. Il nostro compito di genitori e di educatori consisterebbe nell’incoraggiare entrambi alla totalità, alla capacità di essere sia forti sia fragili, attivi e passivi, ecc, in risposta a specifiche situazioni. Invece di definire la virilità in rapporto alla sessualità, dovremmo riconoscerla in relazione alla biologia: i ragazzi diventano uomini, le ragazze donne, intendendo con questo che entrambe le categorie sono sinonimo di identità e senso di sé. Di solito quando la gente di colore invita i giovani maschi a essere “uomini”, ciò a cui li sta realmente invitando è ad essere responsabili, a rispondere delle loro azioni. Sono qualità indispensabili all’autorealizzazione. Necessarie tanto ai giovani quanto alle giovani di colore.

Quando, nell’immaginazione del maschietto nero, esse si identificano con questa misteriosa, irraggiungibile “virilità”, non solo esse paiono irrealizzabili, ma finiscono per somigliare a tratti che, invece di liberare, impongono confini e limitazioni. Da qui il bisogno di ribellione. Essendo cresciuto in una famiglia patriarcale con una forte figura di maschio addetto al mantenimento e alla disciplina, era evidente che mio fratello dovesse risentire della pressione a essere “uomo” e lo considerasse un peso. Ad esempio: da bambini avevamo in comune un giocattolo, un carretto rosso. A mio fratello era stato insegnato che era suo dovere di “maschio” portarmici in giro spingendolo. In lui si era creata un’associazione tra spingere e lavoro da un lato e farsi portare in giro e piacere dall’altro. Non appena eravamo fuori dal campo d’osservazione degli adulti, mi scaricava. La sua prima percezione di ciò che significa essere “un ometto” era coincisa con la mancanza di piacere. Come avremmo potuto vedere diversamente le cose se a entrambi fosse stato insegnato a condividere con assoluta reciprocità il piacere dell’essere portati in giro e la fatica di spingere. Crescendo, mio fratello ha fatto di tutto per non assumersi responsabilità. Essere responsabile significava, infatti, rinunciare al piacere. Da lì il suo rifiuto di adeguarsi all’idea sessista di virilità. Senza un’alternativa capace di dargli un senso di autorealizzazione che non escludesse il piacere, è caduto preda di comportamenti ripetitivi e paralizzanti e di abitudini coatte.

Per lo più le nere non sono state storicamente socializzate a essere “donne” nel tradizionale senso sessista del termine – vale a dire a essere deboli e/o subordinate. Se così fosse stato, la maggior parte delle comunità e delle famiglie nere non sarebbero sopravvissute. Altre erano le caratteristiche richieste se dovevamo essere parte della forza lavoro, fare da capifamiglia, mantenere – se necessario – e proteggere. Appropriandosi di tali abilità, le donne di colore hanno però allo stesso tempo imparato a essere femminili, ad agire da sottomesse (non c’è da stupirsi che molte di noi non scelgano di essere sottomesse), a seconda del contesto sociale. Oggi più che mai. le donne di colore sono travagliate da questioni di femminilità anche se, per lo più, le vite che conduciamo non ci consentono di mettere in cima ai nostri pensieri l’aspetto che abbiamo, gli abiti che indossiamo o la nostra capacità di sottometterci all’autorità maschile. Tanto per i maschi quanto per le donne di colore sarebbe liberatorio chiedersi se l’aver fatto proprie le convenzionali norme sessiste abbia migliorato la vita dei neri. Visti lo stato dell’economia, il mutamento dei ruoli di genere, l’incapacità di molti maschi neri di provvedere finanziariamente o emotivamente a se stessi, la loro incapacità di proteggersi dalle aggressioni con cui il patriarcato suprematista capitalista bianco attenta alla loro vita (troppo spesso con la complicità dei neri, che ad esempio si uccidono tra loro. E l’omicidio di un nero da parte di un nero è di per sé espressione di una mascolinità patriarcale, poiché è il patriarcato a chiedere ai maschi di dar prova della loro virilità), è grottesco aspettarsi che gli uomini di colore riescano a guadagnarsi lo status di patriarchi “proteggendo” e “provvedendo”. Connessa alla speranza utopica che lo stabilirsi di un patriarcato nero rimargini le nostre ferite collettive è la persistente adesione al tropo della “famiglia” come unico e insostituibile luogo di redenzione.

Di consueto per “sana” famiglia nera si intende una situazione domestica patriarcale, governata dal padre. Gilroy suggerisce di riconsiderare il nostro investimento in questa idea monodimensionale di famiglia: “Mi chiedo se la crescente centralità del tropo familiare all’interno del discorso politico ed accademico nero non segnali l’emergere di una varietà specifica e enfaticamente post-nazionale di essenzialismo razziale. Appellarsi alla famiglia andrebbe inteso sia come sintomo sia come segno di un approccio neo-nazionalista più agevolmente comprensibile come essenzialismo flessibile”. È da notare che per Gilroy l’idea di una “famiglia nera ideale, immaginaria e pastorale” contrasta con la realtà di “rappresentazioni autoritarie della negritudine”. A differenza di Gilroy, io non ho alcun problema ad accettare una visione del mutamento sociale nella vita dei neri che riconduca al tropo della vita familiare come luogo di redenzione. Credo si tratti di un sito cruciale e centrale per educare alla coscienza critica, alla decolonizzazione, eccetera. Il problema sta nell’insistenza sulla dimensione patriarcale della famiglia redentrice. Dovrebbe essere più che chiaro, se non dalla vita dei neri almeno dall’esperienza dei bianchi documentata negli scritti femministi, che la famiglia patriarcale non offre alcun modello per la liberazione. Contrariamente a ciò che comunemente si crede, la gente di colore ha sempre sostenuto, anche se solo sul piano simbolico, il primato del patriarcato. Che nelle famiglie nere degli Stati Uniti i maschi fossero presenti o meno, nel ruolo di capifamiglia molte donne di colore hanno assunto un atteggiamento autoritario, simbolicamente patriarcale. A dispetto degli stereotipi razzisti e sessisti che vorrebbero farci credere che le donne di colore capifamiglia sono ben contente di assumere il ruolo “maschile”, la maggior parte delle nere non fanno che convalidare la superiorità maschile, l’importanza del ruolo maschile, persino quando criticano gli uomini perché non si sanno assumere tale ruolo. Come qualsiasi altro gruppo in questa società, anche le famiglie nere degli Stati Uniti sono state talmente investite nella strutturazione familiare che ideologia patriarcale e autoritarismo si riproducono anche in assenza di figure maschili.

I maschi neri allevati da madri capofamiglia sono una testimonianza continua del bombardamento a cui vengono sottoposti perché si educhino all’importanza di “essere uomini”. Che nelle loro case non vi siano uomini non vuol dire che la presenza maschile non venga ipervalutata e rimpianta. Troppo spesso la gente presume che la critica nera femminile di una mascolinità nera difettosa e incapace di modificarsi sia una dichiarazione di indipendenza, quando di fatto essa maschera il profondo desiderio che quel benevolo patriarcato maschile faccia la sua comparsa in modo che la donna non debba essere responsabile di ogni aspetto della vita. La famiglia è un luogo significativo di socializzazione e politicizzazione proprio perché è da lì che la maggior parte di noi ricava le proprie idee su razza, genere e classe. Ignorando la famiglia e agendo come se potessimo rivolgerci a altre strutture per educarci a una coscienza critica, ignoriamo la significatività dell’identità al suo primo stadio di sviluppo e della fase in cui i valori si formano. Parlare di una famiglia nera progressista e non autoritaria come sito di redenzione (come spesso mi capita di fare nel mio lavoro) è importante. Il che non ha nulla a che vedere con la nozione di famiglia come mini-nazione, evocata con sentimentalità da fascisti e pensatori nazionalisti dalle vedute ristrette, la famiglia sognata da Hitler quando affermava: “Se diciamo che il mondo dell’uomo è lo stato, che il mondo dell’uomo è il suo impegno, la sua lotta in nome della comunità, potremmo forse dire che il mondo della donna è un mondo più piccolo. Il mondo di una donna sono infatti il marito, la famiglia, i bambini, la casa. Ma dove sarebbe il grande mondo se nessuno volesse occuparsi del piccolo mondo…. Il grande mondo non sopravvive se il piccolo mondo non è al sicuro”. E questa visione della famiglia che va sradicata nella coscienza nera se vogliamo affrontare la seria crisi che la nostra gente sta attraversando. Invece di lavorare a partire da un modello patriarcale seriamente sbagliato eppure preso per “ideale”, bisogna che ci rivolgiamo alla famiglia nera nella sua diversità e che riconosciamo le possibilità positive di trasformazione insite nelle sue strutture.

La realtà è questa. Le famiglie patriarcali non sono luoghi sicuri e costruttivi per lo sviluppo delle identità e di legami familiari sgombri dal peso paralizzante del dominio. Invece di organizzare le famiglie nere attorno al principio autoritario che il più forte comanda sul più debole, possiamo organizzare (come alcuni di noi fanno) la nostra concezione della famiglia attorno a modelli anti-patriarcali e anti-autoritari che pongano l’amore a principio guida centrale. Riconoscendo all’amore la funzione di mezzo per creare un ambiente di crescita emotiva spirituale e intellettuale, le famiglie dovrebbero mettere l’accento sulla mutua cooperazione, sul valore della mediazione, della costruzione e della condivisione delle risorse. Adottare il punto di vista femminista può ispirare la trasformazione della famiglia così come la conosciamo. Abbiamo bisogno che gli studiosi di colore osservino le famiglie nere che si sono date una struttura non patriarcale, che ne documentino i modi di funzionare e che condividano con tutti noi le loro scoperte. Invece di continuare a attaccare le famiglie affidate a un solo genitore, in particolare se il capofamiglia è una donna di colore, dobbiamo richiamare l’attenzione su quelle situazioni domestiche dichiaratamente non patriarcali e capaci di dimostrarsi luoghi di produttiva autorealizzazione tanto per gli adulti quanto per i bambini di colore. Persino quei neri che continuano a credere che la famiglia patriarcale sia il solo modello “sano” sono disposti ad ammettere che le famiglie dove gli uomini maltrattano donne e bambini non sono più sane di quelle gestite con amore da un singolo genitore. Sfortunatamente, spesso queste persone rifiutano di vedere quanto, nell’intimità delle case, siano diffusi il dominio e l’abuso maschili o come i valori del patriarcato promuovano l’uso della forza e della coercizione. Pur non proponendo alcun modello per il cambiamento. nel suo libro Makes Me Wanna Holler Nathan McCall mette l’accento sul potenziale d’abuso presente nella famiglia nera: “Se il padre è un povero diavolo fottuto e umiliato, la famiglia dove sono presenti padre e madre non è meglio della famiglia gestita dalla sola madre. In una casa non vi è nulla di più pericoloso e distruttivo di un maschio nero frustrato e oppresso.” Eppure McCall non mette in discussione che il patriarcato sia un principio organizzativo fondante della vita familiare nera. Non è possibile porre fine all’abuso nella famiglia nera senza ripudiare il modello patriarcale. Questo ripudio richiede un esame critico dei comportamenti cosiddetti virili. Nella vita dei neri, così come nella società nel suo insieme, i maschi dimostrano di essere “uomini” attraverso l’esibizione di un comportamento antisociale, la scarsa considerazione dei bisogni altrui, il rifiuto di comunicare, l’indisponibilità a nutrire e prendersi cura. Non sto parlando di tratti coltivati dai maschi adulti, sto parlando di tratti che, sin dai primi anni di vita, i bambini di sesso maschile imparano ad associare alla mascolinità e a fare propri.

È questo il soggetto di The End of Method: A Bookfor Men of Conscience di John Stoltenberg, un libro pieno di grandi idee, ma troppo spesso scritto in forma inaccessibile. Il suo deciso punto di vista è che in regime patriarcale i maschi imparano a dar valore all’affermazione della mascolinità a scapito di tutto il resto (amore e giustizia inclusi), e che tale mascolinità è costantemente determinata dalle dinamiche delle relazioni interpersonali tra maschi. “Quando un uomo”, egli sostiene, “ha deciso di amare la mascolinità più della giustizia, non è difficile prevederne le conseguenze su tutte le sue relazioni con le donne. Quando un uomo si affida al giudizio di altri uomini per verificare la propria mascolinità, qualsiasi donna con cui egli sia in rapporto viene costretta nella posizione di potenziale ‘terzo’, usabile per stabilire una tregua tra uomini senza perdere la faccia”. Senza dubbio i maschi di colore conoscono intimamente quell’aspetto del legame omo-sociale che fa perno sul misurare se stessi in base allo standard stabilito da altri maschi. Di solito tutto comincia con il ragazzino che si misura col maschio adulto autoritario o con ragazzini dotati di maggior potere o di uno status superiore.

Poiché la maggior parte dei maschi di colore (e delle donne e dei bambini di colore) vengono educati a credere che mascolinità e giustizia siano tutt’uno, il nostro primo obiettivo deve essere la consapevolezza individuale e collettiva che giustizia e integrità della razza vanno definite in rapporto alla capacità di uomini e donne di colore di essere liberi di autodeterminarsi. La libertà dei neri non potrà mai misurarsi sulla base del diritto acquisito dai maschi di colore di asserire un potere di tipo patriarcale. Una volta che abbia disimparato a pensare in questi termini, la nostra gente potrà cominciare a creare un clima culturale in cui ci sia possibile far nostro un impegno etico verso la libertà e la giustizia che non escluda nessuno di noi.

Quando ciò avverrà, faremo in modo che i maschi di colore rompano con il pensiero patriarcale che nega “giustizia” per tutti e li sfideremo a aprire i loro cuori e le loro menti in modo da far propria una visione redentrice di libertà. È questo amore della giustizia che può trasformare la coscienza dei maschi di colore. Esso può emergere solo se i nostri uomini rifiutano di stare al gioco – se rifiutano la definizione patriarcale della mascolinità. Stoltenberg ci dice che “imparare a vivere da uomini di coscienza consiste nell’imparare a riconoscere tali dinamiche e nel decidere di tenerne fuori dalla propria vita gli effetti. Imparare a vivere da uomini di coscienza vuol dire decidere che comportarsi lealmente nei confronti delle persone amate è “sempre” più importante della dipendenza che si può provare nei confronti dei giudizi espressi da altri uomini sulla propria mascolinità”. Il ripudio da parte del maschio di colore dell’equazione mascolinità patriarcale/libertà creerebbe una positiva, profonda rivoluzione nelle nostre vite. Tragicamente, nessuno dei nostri più potenti leader neri (ad esempio Malcolm X, che poco prima di morire aveva cominciato a pensare in modo critico al bisogno di smettere di sentirsi vincolati a un patto di fedeltà verso il patriarcato) ha trasmesso questo messaggio di liberazione alle comunità nere, neppure quando lo aveva fatto proprio sul piano personale e privato.

I maschi di colore hanno paura di passare per “figadiretti” agli occhi delle donne, degli altri maschi di colore, degli uomini e delle donne che si sono dichiarati a favore delle tesi femministe. Tra chi osa tanto criticare le tradizionali nozioni sessiste di mascolinità nera quanto modificare i propri comportamenti vi sono in particolare i maschi neri eterosessuali coinvolti in gruppi di recovery e/o in terapie individuali, ma essi non hanno ancora un foro pubblico. Questi uomini devono unirsi solidalmente alle compagne di colore e far sentire la propria voce. La crisi che travaglia la vita dei neri è in parte effetto del sostegno costante offerto al patriarcato e dei falsi paradigmi per un mutamento sociale che emergono dall’assetto mentale patriarcale. A meno che i neri, uomini e donne, insieme a chi è loro alleato nella lotta, non riescano a lanciare la sfida – a rivolgersi criticamente contro il patriarcato, ma anche a proporre con coraggio dei modelli redentivi di liberazione e di cambiamento sociale – collettivamente rimarremo in un impasse, bloccati, incapaci di fare passi avanti. Finché non riusciremo a mettere una volta per tutte all’ordine del giorno la sfida al sessismo, saremo incapaci di dare vita a politiche di trasformazione vitali e rigeneratrici, in grado di contrastare la disperazione crescente e il senso di impotenza che paralizzano le nostre esistenze.

Cura e traduzione di Maria Nadotti.

Fonte: https://bibliotecadelledonne.women.it/fascicolo/lapis-n-29-1996-03/

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