Maria Rosa Cutrufelli, L’isola delle madri, Mondadori, Milano 2020, pp.234

Un romanzo distopico, ma non tanto, perché anticipa una tragedia preannunciata, quella che stiamo vivendo del Covid 19, causata dal riscaldamento globale, l’inquinamento industriale, dagli allevamenti intensivi, dai fertilizzanti usati nelle campagne, dalle colture ogm che bloccano la riproduzione dei semi delle piante e che nell’immaginario di Cutrufelli rende sterili anche gli uomini e le donne; “la malattia del vuoto” è chiamata. La malattia cioè del grembo vuoto. Una malattia che colpisce soprattutto gli abitanti dei paesi ad economia industriale, ma non solo. A marzo quando è stato pubblicato il libro, eravamo in pieno lockdown e mentre lo leggevo vedevo dalla mia finestra le code ai negozi, sentivo le sirene delle autoambulanze; vedevo in tv  i presidi di polizia, l’uso dei droni per acciuffare i solitari runner dei boschi, la militarizzazione crescente della  nostra società democratica. Ritrovavo le questioni che si discutevano in tutti i mezzi di comunicazione di massa: quali erano le cause della nostra pandemia? Perché le città più industrializzate e dove si esercita un violento e brutale sfruttamento della terra e degli esseri viventi con colture e allevamenti intensivi sono le più colpite dalla pandemia?

L’ecofemminismo aveva già messo in guardia contro questo modello di sviluppo capitalistico mondiale, penso a Vandana Shiva, tra le più conosciute, e anche alle nostrane che hanno scritto di questo nesso, Laura Cima e Franca Marcomin (L’ecofemminismo in Italia. Le radici una rivoluzione necessaria, Il Poligrafo, 2017), Daniela Padoan (Niente di questo mondo ci risulta indifferente, interno edizioni, 2020), per citarne alcune. Soprattutto Carla Faralli, Matteo Andreozzi e Adele Tiengo che hanno curato il bel volume Donne, ambiente e animali non-umani  del 2014 (scaricabile in https://www.ledonline.it/Relations/allegati/696-donne-ambiente-integrale.pdf), in cui si afferma:

”Ciò che occorre è smascherare le premesse stesse dell’oppressione e, una volta superata ogni forma di dualismo gerarchizzante, promuovere una visione relazionale della realtà capace di supportare, anche tramite espedienti tipici della narrativa, un’etica simpatetica da affiancare a quella più tradizionale […] elaborare una morale intergenerazionale e interspecifica che non si limiti a gloriarsi del fatto di apparire, seppure utopica, logicamente supportabile, ma che sia effettivamente praticabile, e quindi anche tutt’altro che irraggiungibile”. 

Ed è questa ”morale intergenerazionale “ e di genere, “effettivamente praticabile” che Maria Rosa Cutrufelli immagina si realizzi attraverso “un’etica simpatetica” fondata sulla relazione tra donne che scombina i ruoli tradizionali, in particolare quello della madre. Una delle protagoniste si chiede:

“Chi è una madre? Che cos’è una madre? Perché, all’improvviso è diventato così difficile definirla?” […] “E’ da quando la maternità si è frantumata, dice, da quando il concepimento e la gravidanza non avvengono più in un solo corpo, che ci chiediamo: chi ha diritto al nome di madre? La donna che ha dato il suo ovulo, quella che ha accolto l’embrione nel suo grembo oppure quella che crescerà il bambino”

Destrutturazione dei ruoli non in modo meccanico ma attraverso la relazione tra quattro donne provenienti da esperienze e mondi diversi perché è necessario fa dire ad una personaggia “Abbattere gli steccati fra la percezione e la conoscenza: attraversare il mito per raggiungere la concretezza del presente”. E così nel Centro medico super specializzato per le inseminazioni artificiali, nell’isola delle madri, Maria Rosa immagina di dividere le madri: le mamme uovo, le mamme canguro e le mamme giardiniere. Ognuna con una propria responsabilià ed emotività perché, dice Aya a Marianna, che “ha camminato  per quasi tre anni. Mille e novanta giorni”. 

“[…] la gravidanza non è soltanto un lavoro del corpo, qualcosa che si può quantificare. Non è solo fatica e travaglio, è molto, molto più di questo. E’ ansia, euforia, è condivisione profonda e segreta di sé. E’ una febbre dell’animo”. 

E’ finalmente uscire dalla malattia del vuoto, dalla sterilità che fa sentire Livia

” […] sola e spersa: Senza progetti. C’è chi non ha una casa, a lei sembra di non avere un “io”, un senso di sé, a cui tornare: Le manca l’approdo”.  

Livia, affermata archeologa e sterile insieme al marito, sarà la giardiniera di Nina, l’io narrante:

 “Livia era la mia giardiniera, cioè colei che si era assunto il compito di crescermi. Doveva potare i miei rami e rafforzare le radici. Non ne ha avuto il tempo, purtroppo, ma è stata lei a immaginare la mia esistenza: a inventarmi: E, nell’inventarmi, mi ha trasmesso la sua passione”.

E anche le altre donne hanno alle spalle un dolore. Chi come Marianna, la madre canguro di Nina, proviene dall’Africa sud occidentale, da una città fortezza da cui partivano le navi schiaviste, e che nella sua fuga è stata catturata e stuprata in un campo di prigionia dove aveva partorito.

“Quel  bambino che le era cresciuto dentro all’insaputa, un figlio della notte e della sofferenza, nato sulla coperta di un campo di prigionia. […] Lì quel dolore si era attaccato alle sue calcagna con l’ostinazione di un cane, muto, implacabile, e non l’aveva più mollata”.

O chi come Katrina, la madre ovulo, è approdata nell’isola come infermiera da un paese dell’Est devastato da guerre fratricide e dagli antinatalisti. E Sara, da sempre volontaria nei paesi più a rischio, è stanca, come Tonio il suo autista,  di tappare i buchi, vuole finalmente costruire e dare vita. E approda a questo Centro medico  specializzato nelle nuove biotecnologie per la natalità, un centro di cura e di ricerca  diretto dal dottor Weaver, ”un biologo famoso che aveva fatto includere la sterilità nell’elenco mondiale delle pandemie”. 

Qui, nell’isola delle madri, dove un desiderio di maternità si può realizzare, nell’isola di Demetra e Persefone, si ricongiungono queste quattro donne. Alle spalle hanno un mondo che si sta via via desertificando e sterilizzando: non solo i cambiamenti climatici, l’industrializzazione e l’agricoltura intensiva ma anche l’uso dei diserbanti nocivi alle piante e all’uomo, perché come dice uno studente di Livia che mette sotto processo una grande industria chimica:

 “Vi riesce difficile immaginarlo? Allora mettiamola così: ciò che hanno fatto con i semi dei cereali, lo stanno facendo a noi. Anche noi stiamo diventando semi geneticamente modificati. Semi che in futuro non produrranno altri semi”. 

Uomini e donne sterili , la nuova pandemia. Infatti le donne del centro non allattano i bambini, usano il biberon perché

 “la colpa è delle sostanze inquinanti, le ha spiegato Irena, la vecchia ostetrica […] il cibo è inquinato, l’aria è inquinata, tutto il nostro corpo è inquinato. Quindi non resta che il latte artificiale”.

Si perché anche l’isola è inquinata, si rischia di restare contaminati, bisogna evitare i contagi. L’isola è la Sicilia, ma i luoghi desertificati e ormai relitti appartengono ad una specifica zona della Sicilia, quella delle cattedrali del deserto. La scrittura di Maria Rosa è visiva quasi cinematografica, è facile per chi ha vissuto quei luoghi riconoscerli, trovarvi un pezzo del proprio passato. Vi ho ritrovato il paesaggio desolato di Gela, una volta città ridente, mio paese di origine e luogo dove Maria Rosa ha vissuto per parecchi anni e dove io l’ho conosciuta.

Nel suo bel libro Scrivere con l’inchiostro bianco (Iacobellieditore 2018), Mariarosa parla di questo “abbraccio pericoloso tra autore e testo”:

 “Il risultato è che la distanza tra vita e scrittura si accorcia e l’autore si sente in trappola: la sua opera gli sta attaccata addosso e brucia peggio di quella camicia di Nesso […].”Quindi “[..] non c’è scrittura che non sia attraversata dal guizzo del nostro «misero tesoro»: l’identità personale”.

Anche questo libro nasce da un dolore, quello dell’impossibilità del ritorno, del nostos in un luogo dell’anima, la Sicilia, dove, come afferma Livia, venti anni prima “[…] c’erano campi di carciofi, pomodori e zucchine. Orti in abbondanza. Ulivi e mandorleti”. Ma da dove, adesso, afferma Nina, l’io narrante, è impossibile partire e dove è difficile tornare: 

“Non pensavo più solo a me, è chiaro. Piuttosto a Katerina, a Marianna, a Sara: Alla stessa Livia A chi non può partire e a chi parte ma non può fare ritorno. Pensavo ai confini, ai muri, ai posti di blocco. A tutte le barriere disseminate per l’intero pianeta e al fatto che anche sull’isola ne abbiamo tante, ma tante da non crederci. Appaiono da un giorno all’altro, in mezzo a una strada, fra due quartieri o addirittura tra due caseggiati e, se continua così, alla fine sarà più facile andare sulla luna che dai vicini”.

“Ma la nostra specialità sono le transenne. Perché noi, invece di aggiustare, transenniamo: le aree inquinate, i distretti industriali dismessi, le antiche miniere. Ogni cosa. Perfino i siti archeologici, abbandonati e inattivi da quando ho memoria. Sono chiuse le necropoli preistoriche e protostoriche. Le rovine della città sacra a Demetra e a Persefone […]” (Livia)

 Era la pianura di messi di Demetra, le cui statuine votive a migliaia si ammirano nel museo archeologico di Gela. E dove la devozione a Demetra si tramanda ancora oggi nelle processioni lungo la spiaggia delle novelle spose guidate da un prete al tempio a lei dedicato alla foce del fiume Gela e ora sincreticamente dedicato alla Madonna. Ma ora i figli che nascono a Gela sono mutilati, l’inquinamento ha scavato nelle falde acquifere, leucemia e tumori ai polmoni sono diffusissimi. Ha colpito geneticamente anche le nuove generazioni:

“guarda le ciminiere senza  fumo. Lungo la costa. Non inquinano più, ma è una buona notizia? E fino a che punto lo è? A suo tempo gli operai e le loro famiglie. Ora forse hanno superato la crisi e ritrovato il pane e il lavoro, ma la capacità di riprodursi? Certi danni genetici non si riparano. Il fumo non c’è più, ma è come se le ciminiere continuassero a fumare” (Livia)

Il paesaggio descritto è realistico non così distopico: 

“[…] Il terreno è asciutto. Non si vedono piante e non si vedono case, a parte i resti di una fattoria diroccata e il biancheggiare lontano di una serra. Anche sul litorale, attorno alle fabbriche, non c’è nessuno, né uomini né macchinari in movimento: le ciminiere si specchiano luccicando sulla superficie piatta del mare, ma non mandano fumo: E le torri si alzano silenziose, come minareti abbandonati dai  loro muezzini” (Marianna)

“Sara non è mai stata sull’isola prima d’ora, quel panorama per lei è nuovo: ma sa, perché glielo sta dicendo Tonio, che ciò che vede è un’illusione:  non sta guardando una fabbrica in funzione, un polo industriale attivo: se le ciminiere non sputano fuoco è perché sono spente: e se Tonio parcheggiasse e scendessero in spiaggia imboccando una qualsiasi viuzza laterale, non troverebbero operai indaffarati attorno ai macchinari: Solo mura diroccate. Magazzini vuoti e capannoni dismessi: Vedrebbero tettoie pericolanti. Rifiuti: Depositi di bidoni circondati da filo spinato: e onde sporche, gonfie di morchia, che si riversano sulla sabbia fine”.

Il paesaggio pacifico e industrioso che si distende laggiù, lungo la riva, non è che un inganno ottico.

“Ora non sono passati neanche vent’anni e vede solo colture artificiali. Serre a non finire. Vivai protetti da teli termosensibili che dosano il calore. Capannoni piantati dentro una terra arida, sfibrata dal sole. Ma sotto quelle cupole di materiale plastico almeno si produce, mentre lungo la costa le fabbriche giacciono nell’abbandono. Cilindri, cerchi, sfere sigillate: dei vecchi stabilimenti è viva soltanto la geometria. Ormai sull’isola c’è un’unica industria in grado di svilupparsi e prosperare. E quest’industria è il centro medico per la natalità”. (Livia)

Chi vorrebbe tornare in luogo come questo? Dove agli scarichi industriali si accompagnano le collinette di rifiuti che potete odorare alle spalle di Gela andando verso Butera:  “Tutte quelle collinette che punteggiano la valle, ben recintate, quei monticelli squadrati alla perfezione, contengono milioni e milioni di metri cubi di rifiuti di ogni tipo. Soprattutto industriali”.

Nostalgia e senso di perdita sono i sentimenti di tutti coloro che sono andati via dal proprio paese di origine. Nostalgia per un luogo che non c’è più, che è cambiato in peggio. Maria Rosa, però,  ridà la speranza di un ritorno, una luce, possibile grazie alla solidarietà, all’amicizia tra donne: “[…] ecco! Si è accesa l’isola delle madri”.

Un calore che si contrappone al freddo inerte del paesaggio intorno. E di questa luce e possibilità ringraziamo Mariarosa. La scrittura può essere catartica, liberare ossessioni, sensi di colpa. Quello di avere abbandonato al suo destino un luogo, quello di non avere seguito gli insegnamenti di un padre. Ma la scrittura opera un riscatto, dà la possibilità di ricucire ferite, di rielaborare un lutto e condividere con i lettori la consapevolezza che se non cambiamo stile di vita, modalità di relazioni, il mondo potrebbe cascarci addosso, come la pandemia del Covid 19 ci ha insegnato. 

Concetta Brigadeci

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