Esce in una nuova ristampa il libro di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina “La resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi” (Bollati Boringhieri). Darne notizia ci sembra un buon modo per festiggiare la ricorrenza del 25 aprile, festa della liberazione.

Quando fu pubblicato per la prima volta, nel 1976, determinò una svolta nel modo di raccontare la Resistenza e aprì non pochi dibattiti nella storiografia dell’epoca. Come scrive Anna Bravo

nelle decine di migliaia di pagine scritte nei decenni Sessanta e Settanta c’è, insieme a molta routine celebrativa, lo sforzo di costruire una nuova antropologia del resistente. Il maschile è d’obbligo; a dispetto delle innovazioni, le donne restano un soggetto storiografico a dir poco secondario (p. VII).

Si trattava quindi di un’operazione nuova, quella di dare voce alle protagoniste per raccontare la propria versione dei fatti. Non solo. Come sottolinea Anna Bravo nella prefazione, Bruzzone e Farina capovolgono la questione: da quale sia il contributo dato dalle donne alla Resistenza, a quale contributo abbia dato la Resistenza alla libertà femminile:

Il giudizio è che lo scambio è stato ineguale, che i conti restano aperti (p. IX).

E nonostante questo, il sapore che lasciano queste biografie è tutt’altro che vittimistico. Ne esce

un’idea dei rapporti uomo/donna che va al di là del paradigma oprressione/dominio per mettere in scena gli aspetti di scambio, reciprocità, progettazione comune – e gli aspetti di competizione da pari a pari (o quasi), e qualche traccia dell’antico e segreto disprezzo femminile per l’infantilismo e la vanità dell’uomo, e insieme la vulnerabilità delle donne al prestigio di un dirigente o di un intellettuale (p. XIV).

E’ qualcosa in cui possiamo ancora almeno in parte rispecchiarci, nonostante i cambiamenti degli ultimi quarant’anni. Episodi come quello raccontato di Tersilia Fenoglio Oppedisano, nome di battaglia Trottolina, non avrebbero più luogo oggi. Tersilia fu costretta a mettersi da parte, ai bordi della sfilata, perché i suoi compagni garibaldini piemontesi le proibirono di partecipare al corteo della liberazione, preoccupati di non dare un’immagine promiscua della Resistenza. Oggi, al contrario, la mancata presenza femminile in un’occasione di visibilità comporterebbe un danno di immagine per un’istituzione o organizzazione. Quanto questo sia un segnale di conquista piena di cittadinanza, resta tutto da vedere.

 

E.C.