Giuliana Franchini, intervento al seminario La Milano di Lina Merlin (2 ottobre 2017)
Il femminismo di Lina Merlin viene da lontano
Come è noto Lina Merlin ha fatto parte del ristretto numero di donne (21 deputate su un totale di 656) che hanno contribuito a scrivere la Costituzione italiana.
Eletta all’assemblea costituente nelle liste del Partito socialista alla soglia dei 60 anni, è a lei che si deve se il fondamentale articolo 3 della Costituzione ha l’attuale formulazione, che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Inizialmente il testo proposto recitava: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di lingua, di razza, di religione”. I proponenti sostenevano, infatti, che la dizione “tutti i cittadini” includeva automaticamente le donne ma Lina Merlin insistette perché fosse esplicitata la discriminante di sesso così argomentando:
«Onorevoli colleghi molti di voi sono insigni giuristi e io no, ma conosco la storia. Nel 1789 furono proclamati in Francia i diritti dell’uomo e del cittadino e le costituzioni degli altri Paesi si uniformarono a quella proclamazione che in pratica fu solo platonica perché cittadino fu considerato solo l’uomo con i calzoni e non le donne.»
Questa presa di posizione dimostra che Lina Merlin era in grado di riallacciare il filo con le battaglie per la cittadinanza e i diritti femminili condotte per decenni dalle organizzazioni femministe europee e americane, un filo che il fascismo aveva cercato di troncare sopprimendo le maggiori associazioni emancipazioniste italiane.
L’adesione al Partito socialista
Nata nel 1887 in una famiglia numerosa della piccola borghesia veneta, di professione maestra, si era avvicinata alla politica attiva negli anni convulsi del primo dopoguerra.
Nel 1919 aderì al Partito socialista padovano spinta, come spiega nell’autobiografia, sostanzialmente da due motivazioni: la prima è il rifiuto della guerra fondato anche su motivi personali (non erano tornati dalla guerra ben due dei suoi fratelli).
«Il Partito socialista italiano – scrive – era il solo che avesse avversato la “bella guerra” distruttrice di uomini e di cose».
L’altra motivazione è la condivisione di un ideale di giustizia sociale:
«Di Marx – scrive – conoscevo solo il nome e le poche nozioni imparate nei testi scolastici, sapevo solo che il Partito operava per realizzare un ideale di giustizia che era il mio. Del resto non mi importava».
È una visione umanitaria quella della giovane Merlin che però non ha nulla di vago e astratto, ma si traduce immediatamente in una miriade di iniziative concrete condotte insieme ai responsabili della Federazione padovana, notevoli figure di socialisti che condividevano la concezione dell’attività politica come “apostolato”.
Merlin scrive sul giornale socialista veneto “L’Eco dei lavoratori” e quando la sede sarà incendiata dai fascisti ne diventerà la gerente e riuscirà a farlo uscire in forma semi-clandestina; organizza comizi e conferenze e attività ricreative destinate ai giovani.
Nel 1924, nominata segretaria del Comitato elettorale veneto, raccoglierà i dati delle violenze e illegalità compiute dagli squadristi e li invierà al deputato Giacomo Matteotti che li userà per estendere il suo documentato atto di accusa al fascismo ormai al potere.
La difesa delle lavoratrici
Tra le molte iniziative della Merlin, qui intendo mettere l’accento su quelle rivolte alle donne.
Nel giugno 1921 costituisce a Padova il primo Gruppo femminile socialista e il 3 giugno 1922 dà notizia delle attività del primo anno sulle colonne della “Difesa delle lavoratrici”, l’importante periodico del Femminismo socialista fondato a Milano nel 1912 da Anna Kuliscioff.
L’articolo elenca soprattutto le difficoltà incontrate a causa della violenza squadrista che mira a distruggere ogni iniziativa sindacale e politica dei socialisti ma non solo. Conta anche la novità dell’impresa:
«Fino ad allora – scrive Merlin – ogni attività sindacale e politica dei socialisti si era esplicata sia in città che in provincia solo fra uomini o in leghe miste dove le donne sono trascinate per necessità senza partecipare coscientemente alle lotte economiche».
Le donne proletarie sono timorose e diffidenti, è difficile coinvolgerle. L’iniziativa che più ha successo è la creazione di un ricreatorio laico la domenica pomeriggio nel cortile della Camera del lavoro. Attraverso la cura dei figli si spera di coinvolgere le madri.
Tra il settembre 1921 e il gennaio 1925 Merlin pubblica sul periodico “Difesa delle lavoratrici” una decina di articoli di impostazione varia: due articoli del 1924 sono dedicati alla commemorazione di Matteotti, altri sono brevi racconti in cui esprime il suo pensiero in forma narrativa. Un esempio: il suo rifiuto della commemorazione pubblica dei caduti della Grande guerra che implica la trasformazione delle vittime in eroi è espresso mediante un racconto in cui il figlio caduto appare in sogno alla madre e la convince a non partecipare alla consegna alle madri e alle mogli delle medaglie al valore.
In altri il tema centrale è la difesa dei diritti femminili. Così nell’articolo dal titolo Signorine d’ufficio del 15 ottobre 1923, in cui difende il diritto delle impiegate a conservare il posto di lavoro nel dopoguerra, critica aspramente coloro che, dopo avere spinto le donne a contribuire con il loro lavoro alla mobilizzazione bellica «quando vi era carestia di uomini» ora vorrebbero che cedessero il loro posto ai reduci.
È in atto una vera guerra contro le Signorine degli uffici, sostiene Merlin, fatta di denigrazione e pregiudizi misogini come quello che le donne non lavorerebbero per necessità ma per smania di lusso.
Femminismo e antimilitarismo
L’articolo in cui Merlin definisce chiaramente il suo femminismo è intitolato Noi e le altre (“La difesa delle lavoratrici”, 11 febbraio 1922). L’autrice traccia una netta linea di demarcazione tra le “altre”, cioè le donne nazionaliste e fasciste e “noi”, cioè le donne proletarie e socialiste, due termini che per Merlin sembrano spesso coincidere.
«Le prime – scrive – hanno chiamato a raccolta le donne del Veneto nel nome della guerra che esse hanno invocata, della vittoria in cui hanno creduto, della reazione cui hanno dato incitamento e invitano a stringersi accanto ai generosi che vollero e seppero difendere l’Italia».
A loro si contrappone l’atteggiamento delle proletarie:
«Anche noi fummo combattenti. Anche noi proletarie. Nelle case prive del loro sostegno, nei laboratori, negli uffici, nelle officine, nelle scuole… noi non l’avevamo invocata questa guerra, temuta sì, maledetta anche perché l’istinto creatore della vita in noi sano e incorrotto si ribellava alla guerra che è distruzione. Noi non credemmo: la vittoria e la sconfitta erano uguali per noi se non dovevano riportarci i nostri fratelli».
E rievoca gli innumerevoli lutti che la guerra ha lasciato: centinaia di migliaia di morti, di mutilati, di ciechi, di storpi, di malati.
Qui il femminismo di Merlin sembra coincidere con il suo orrore per la guerra dal momento che alle donne viene attribuito un desiderio istintivo di pace fondata sul fatto di essere creatrici di vita. Merlin arriva ad affermare che:
“Non possono dirsi donne cioè datrici di vita coloro che non si ritraggono inorridite dalla guerra”.
Attraversato su posizioni intransigenti il fascismo Merlin riallaccerà i fili della sua molteplice attività politica incluse le iniziative di orientamento femminista. Durante la Resistenza sarà tra le fondatrici e animatrici dei Gruppi di difesa della donna.
Anche l’iniziativa a cui resta legato il suo nome nella memoria dei più, la Legge per l’abolizione delle case di tolleranza e della schedatura poliziesca delle prostitute, si ricollega a battaglie combattute tra ‘800 e ‘900 dai movimenti emancipazionisti europei con in testa quello inglese.
Il secondo dopoguerra
Quando, nell’agosto 1948, la senatrice Merlin presentò in Parlamento il disegno di legge Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui aveva alle spalle questa storia, ma si muoveva in una situazione molto più favorevole di quella toccata alle emancipazioniste che l’avevano preceduta: l’opzione abolizionista si era affermata, a partire dagli anni Venti del Novecento, in tutti i paesi europei, ad eccezione della Spagna franchista e, appunto, dell’Italia. L’ONU aveva approvato una convenzione per l’abolizione che tutti i paesi che aspiravano a far parte dell’organizzazione (tra di essi vi era l’Italia) avrebbero dovuto sottoscrivere.
I partiti principali (DC, PCI, PSI) non potevano che votare a favore, contraria era solo una minoranza di esponenti della destra, monarchica e postfascista. Tanto più stupisce che ci siano voluti dieci anni perché la proposta diventasse legge il 20 febbraio 1958.
È un segno dell’arretratezza che in materia di relazioni tra i sessi caratterizzava la società del nostro paese.
Giuliana Franchini