Luciano Raimondi, I Convitti-Scuola della Rinascita, Aurora, Milano, 2016
Recensione di Giuliana Franchini

Nell’Italia della ricostruzione profondamente ferita materialmente e moralmente da vent’anni di regime fascista, dalla guerra e dall’occupazione tedesca prende vita tra il 1945 e la soglia degli anni 50 un importante esperimento di scuola attiva e di autogoverno.

A questo esperimento, tanto originale quanto poco conosciuto, è dedicato questo libro che racconta la vicenda dei Convitti –Scuola della Rinascita attraverso una raccolta di scritti di colui ne fu il promotore e il principale animatore: Luciano Raimondi docente di filosofia, partigiano, commissario politico della X Brigata Garibaldi Rocco. Oltre agli scritti di Raimondi, il volume raccoglie anche testimonianze di docenti e allievi dei Convitti e due interessanti saggi introduttivi di Nunzia Augeri e di Silvia Kanizsa.

I Convitti della Rinascita nascono, prima a Milano poi in altre nove città italiane da un’esigenza del momento: permettere l’accesso o la ripresa degli studi a giovani il cui percorso formativo o di apprendimento di un mestiere era stato interrotto dalla partecipazione alla lotta partigiana o da vicende comunque collegate alla guerra (prigionia, deportazione) e inoltre accogliere gli orfani di partigiani. Ma il progetto ha ambizioni che vanno oltre la risposta ad un bisogno immediato: i Convitti vogliono essere il modello ispiratore di una profonda riforma della scuola italiana ritenuta indispensabile per la democratizzazione del Paese.

«Il Convitto –scrivono Raimondi e Pancaldi in un saggio del1955 – richiama il college inglese ma con caratteristiche popolari. Quello che nel college è sforzo per dare una struttura borghese,di classe al carattere, qui è slancio per fare del Convitto un centro di vita, di cultura di costume, che abbia come principio la rinascita del popolo italiano.»

I Convitti della Rinascita costituiscono un’alternativa concreta sia alla scuola fascista sia a quella dell’Italia liberale, di cui la riforma Gentile aveva esaltato il carattere elitario e gerarchico.

Innanzitutto viene affermato con forza il diritto allo studio per tutti. I Convitti prefigurano e vogliono stimolare una politica della scuola che permetta ai membri delle classi lavoratrici di accedere su un piano di parità a tutti i gradi dell’istruzione liberandoli dalla coazione a ripetere il destino dei padri. La realizzazione di un effettivo diritto allo studio non è chiesta solo per un’esigenza di giustizia sociale, ma anche come mezzo per assicurare una reale selezione per merito e garantire il necessario ricambio delle classi dirigenti.

Anche per altri aspetti i Convitti si dimostrano innovativi rispetto alla scuola gentiliana che collocava al vertice della formazione gli studi classico-umanistici. Più modernamente i promotori dei Convitti mettono su un piano di assoluta parità studi umanisti e tecnico-scientifici.

Quando l’esperienza pionieristica di Milano viene riprodotta in altre nove città i Convitti organizzano corsi di formazione professionale capaci di radicarsi nel tessuto socio-economico così ad esempio a Milano si aprono corsi di chimica, meccanica, grafica e pubblicità a Reggio Emilia di edilizia e meccanica agraria, a Genova di mestieri nautici, a Roma di pubblicità. A insegnare nei corsi sono chiamati professionisti affermati: un nome per tutti: l’insegnante dei corsi di grafica a Milano è Albe Steiner. Altri nomi importanti sono coinvolti nell’impresa dei Convitti: a Milano fanno parte del comitato promotore il filosofo Antonio Banfi e Bianca Ceva. Nel Centro di orientamento, molto importante per una pedagogia d’avanguardia che mette al centro la valorizzazione delle capacità e dei talenti degli allievi, lavorano il “padre” della psicanalisi italiana Cesare Musatti e lo psicologo Gaetano Kanizsa.

Ma l’aspetto più radicalmente innovativo dei Convitti della Rinascita, il più significativo dal punto di vista politico è la scelta dell’autogoverno. La gestione del Convitto e della scuola è affidata a un’assemblea formata da tutte le componenti della vita della scuola: studenti, insegnanti, personale amministrativo e di servizio. L’assemblea generale, oltre a eleggere un Direttivo che amministra il Convitto-Scuola, nelle sue riunioni periodiche ha voce su tutti gli aspetti della vita della comunità: didattici, disciplinari, di convivenza.

I promotori dei Convitti sono consapevoli e profondamente convinti del significato politico di questa scelta che affonda le radici nella prassi decisionale della banda partigiana e ha lo scopo di educare gli italiani al confronto delle opinioni e alla assunzione di responsabilità richiesti da una società democratica dopo vent’anni di fascismo.

Stupisce che questa importante esperienza di democrazia partecipata sia stata rimossa dalla memoria collettiva.

I collettivi antiautoritari del ’68, a mia memoria, non si sono mai rifatti a questo precedente neanche per criticarlo. Anche oggi, in vena di anniversari si ricorda la scuola di Barbiana che in fondo era un progetto di riscatto degli “umili” e ruotava intorno alla figura carismatica di don Milani, mai i Convitti della Rinascita.

Scrive Silvia Kanizsa nella sua introduzione: “È un vero peccato che di questa esperienza si trovino poche tracce nei testi di pedagogia”.

La dimenticanza non è solo dei pedagoghi ma più in generale degli storici. Eppure si tratta di un’importante proiezione nell’Italia repubblicana dei valori democratici della Resistenza che contribuirebbe non poco a riequilibrare una storiografia che a partire dagli anni ‘90, si è occupata di post-Resistenza solo in termini di lasciti violenti e di triangoli rossi.

 

Giuliana Franchini

Immagine: https://anpi25aprile.wordpress.com/2013/05/03/a-scuola-di-democrazia-e-responsabilita-i-convitti-scuola-della-rinascita-seconda-parte/