Già militante femminista negli anni Settanta, sono un’ex insegnante di scuola media superiore, sono vedova e madre di un figlio maschio. Nei vari ruoli che ho rivestito e rivesto ho vissuto come centrale il problema della comunicazione tra i sessi e di una nuova relazione tra uomini e donne. Con piacere, dunque, ho letto e apprezzato questo libro, “una guida” alla realizzazione di nuovi modelli di comportamento e di azione, che si basa su dei principi, delle “virtù” da assumere responsabilmente che vanno a formare questo Galateo che Barbara Mapelli ha scritto con intenti pedagogici: “[…] occorre ripercorrere i significati del proprio essere nel mondo, dell’esservi in relazione con altri e altre, per imparare”, afferma l’autrice, “che senso abbia per ognuno il divenire donna e uomo nel contemporaneo. Per imparare che senso abbia, ora, costruire nuove relazioni tra i due sessi”. (p. 7)

Qualcuno ha scritto che la parola “galateo” oggi, dopo la rivoluzione dei costumi e della morale post sessantottina e femminista, è obsoleta. Allora si rivendicava una libertà sessuale e morale che andava a scalfire norme e regole di un Italia familistica e cattolica. Abbiamo trasgredito tutte e tutti pensando che la trasgressione avrebbe portato a una nuova forma di convivenza, di autenticità nella comunicazione contro le ipocrisie della cosiddetta famiglia borghese.

Mapelli, invece, ci parla di “galateo”, parola coniata da Giovanni Della Casa nel 1558 con la pubblicazione del suo Galateo, ovvero dei costumi, scritto con l’intento di dare una nuova forma a una civiltà in divenire, un Rinascimento di pensiero, comportamenti, letteratura; per dirla con Norbert Elias, si trattava di modellare una “civiltà delle buone maniere” per creare l’uomo nuovo, una società nuova armoniosa in cui si annidano i primi segni di mondi utopici, perfetti. Il galateo rinascimentale implica una disciplina, una regolamentazione dei comportamenti nella prospettiva di una società nuova.

Oggi, di fronte alla violenza nel rapporto privato tra uomini e donne, di fronte alla fragilità dell’identità maschile, causa, secondo alcuni, della violenza contro le donne, il privato ha assunto dimensioni pubbliche in forme barbare e oscene. Non è quello che volevamo quando gridavamo “il personale è politico”. C’è stata una curvatura, una deriva che porta all’indietro conquiste che le donne pensavano di avere realizzato. Basti pensare non solo al femminicidio, ma allo svuotamento della legge 194 per cui ci eravamo tanto battute, o allo scandalo del divieto di parlare di genere nelle scuole, o alla posizione identitaria e nazionalista di alcuni gruppi politici nei confronti dei migranti. In tutto questo è riassunta la paura del presunto altro da sé, il rifiuto della cura e dell’ascolto. C’è, dunque, bisogno di un nuovo modo di porsi a partire da noi.

Ho vissuto la relazione con l’altro da me, scolaro/compagno/figlio, con il desiderio costante di una“prossemicità”, come avvicinamento all’altro nell’accezione di Manuela Gallerani nel saggio introduttivo al volume.

Si tratta, tuttavia, di un avvicinamento all’altro che non è mai dato definitivamente. Il movimento dell’approssimarsi è come una danza: ci si avvicina e ci si allontana, si è uniti nell’ascolto reciproco e poi ci si perde, si è lontani. Il senso dell’abbandono, della perdita, è segnato dall’incomunicabilità, dall’essere due separati e distinguibili ma con dentro il sogno di fusione nell’altro, come ci ricorda Lea Melandri.

Un Galateo, dunque, per accettare il limite, quello dell’impossibilità di un approssimarsi definitivo, totale all’altro. L’esperienza è un attraversamento con il corpo, con i nostri sensi, con un corpo situato che ha sedimentato memorie di eventi piacevoli e dolorosi, vissuti con una specificità sessuata segnata da percorsi performativi. Siamo calati in un contesto in cui l’io non è mai io se non in relazione all’altro da me, e si forma e struttura in divenire solo nello sguardo dell’altro.

Un’educazione, quindi, all’ascolto, al pensiero plurale e divergente, come sostiene Edgar Morin, a un pensiero strabico che guarda insieme vicino e lontano, direbbe Rosella Prezzo, e che ha  rispetto, cura di sé perché innanzitutto ha rispetto e cura del prossimo, dell’altro da me. Un altro che mi attraversa che è dentro e fuori di me.

Un galateo, infine, non solo tra donne e uomini ma tra donne e uomini con accenti, lingue, colori, culture diversi di cui oggi molti hanno paura; un galateo per guardare in faccia questa paura che è prima di tutto interiore, perché si ha paura della propria alterità, della propria somiglianza al dissimile.

Gli studi postcoloniali, in particolare quelli di G. Chakravorty Spivak, negano la purezza incontaminata e buona della cultura indigena contrapposta a quella occidentale coloniale. Spivak fa l’esempio dell’informante nativo, mediatore inaffidabile tra le due culture. La sua mediazione è, infatti, frutto di un’incorporazione del linguaggio dell’altro all’interno di un sistema in cui il discorso sull’umano significa affermare l’europeo come modello dell’umano universale. L’altro è escluso non perché rimosso dal parlante ma perché parlato con un codice di rappresentazione in cui l’altro è assente. Nella lingua, nei comportamenti e nei gesti la contaminazione delle classi subalterne è avvenuta. Possiamo solo entrare nella lingua dei segni e destrutturare ciò che già costruito, performato. L’analisi di Spivak è paradigmatica per capire come si strutturano le identità maschili e femminili e suggerisce una via per ristabilire nuove relazioni tra uomini e donne.

Mi chiedo se sia sufficiente un razionalismo cartesiano e l’interiorizzazione di un “dover essere” per scavare quanto di impuro ci sia nella nostra supposta origine e scoprire di quale “sostanza” siano fatti i nostri sogni.

Barbara Mapelli suggerisce ragione e sentimento,  modalità di comportamento che si ispirano ad alcune virtù non solo maschili ma femminili e condivisibili, “apportando contributi di esperienza, diversi, perché diverse sono le vite di donne e uomini, diverse le forme di attraversarle, e questa diversità è probabilmente un bene da difendere”(p.52). Non più le virtù di gentilezza e onestà della donna di Dante o la grazia femminile di origine cristiana ma virtù come capacità operativa e dinamica di contrastare la forza dei tempi, il conflitto tra i sessi, lo spaesamento in una società le cui trasformazioni accelerate provocano paure, disorientamento, incertezze e violenza. Un significato di virtù che è il più vicino a quello pensato e risemantizzato da un “maestro del sospetto” inattuale come Machiavelli che ne ha fatto non un contenuto, come nella precedente tradizione trattatistica, ma proprio una capacità peculiare del nuovo principe per rifondare una nuova etica materiale basata sull’azione.

E Barbara ci indica una nuova etica, comune agli uomini e alle donne, declinata con “voci di donne”, citando Carol Gilligan, che tenga conto della cura, non più solo femminile, e dell’ospitalità, intesa nel duplice significato etimologico della parola hospes: come ospite che accoglie ma anche come straniero e inesperto che è ospitato e accolto. Si può essere ospitali e capaci di donare, dunque, solo con lo straniero, l’altro da te, il dissimile.

Questa nuova etica si avvale di alcune virtù: il coraggio, che Barbara definisce “virtù dell’inizio” del galateo, e la fragilità; la perplessità, che nasce, secondo l’autrice, da “un’esperienza che sa di essere frammentaria e origine di verità temporanee e modeste, perché altrimenti non sarebbe esperienza,come scrive Maria Zambrano” (p.63); rispetto e ironia, attenzione non orientata, in cui il pensiero si svuota per essere ricettivo (Simone Weil), la distanza e la dipendenza, solo apparentemente opposte tra loro, la misura.

Ma è il coraggio a precedere tutte le altre virtù, ne è l’architrave e la premessa. Virtù assegnata agli eroi maschi nella nostra storia letteraria, con alcune eccezioni, penso alla raccolta di racconti Il coraggio delle donne di Anna Banti. Questa virtù dà la capacità, la forza nell’esporsi, nell’agire pubblicamente, nel prendere la parola, un coraggio spesso attribuito solo agli uomini. Per Mapelli (citando Arendt, Zambrano ecc) forse è necessario il coraggio di accettare i propri limiti, il finito, le fragilità del cuore e, ciononostante, come Antigone di Zambrano, sfidare a viso aperto le ragioni del Logos per far valere le ragioni del cuore, degli affetti, e guardare la propria finitudine senza temerla. E’ il coraggio di sgombrare la mente dagli automatismi e analizzare i segni discorsivi attraverso cui essi si manifestano. La narrazione, allora, il raccontarsi, diventa un potente mezzo di autoconsapevolezza se si rivela nella relazione con una comunità di parlanti e ascoltatori,

Forse solo la parola data e ricevuta ci può riscattare dall’”inferno” in cui siamo gettati, senza illusioni escatologiche, di una salvezza definitiva, con ciglio asciutto e coraggio.

Intervento di Concetta Brigadeci all’incontro di presentazione del libro

“Galateo per uomini e donne. Nuove adultità nel contemporaneo”

di Barbara Mapelli, Mimesis, Milano 2014.

 

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