«Il progetto razionale su cui ci eravamo incontrate era genericamente quello di capire, con l’aiuto della psicanalisi, le dinamiche che si sviluppano in un gruppo di donne, e quindi di spiegarci perché erano falliti tanti gruppi di autocoscienza femministi. Non ci doveva essere l’Analista, colui o colei a cui ci si affida o di cui si diffida, da cui si pretende la nostra salvezza, che non chiede ma deve dare. Non si trattava cioè di ‘subire’ una terapia che avrebbe portato alla ‘guarigione’. C’erano invece delle donne di varia provenienza, età, problemi, tra cui delle analiste, che avevano aspettative, insoddisfazioni e speranze. Nessun ‘pagamento’ quindi, nessuna pretesa di cura, tutte avremmo ricevuto vantaggi dalla ricerca comune e dall’esperienza di ciascuna».

«Una delle cose oscure che ci legavano, dopo la ‘chiusura’ a nuove partecipanti, era una nostra complicità segreta, non solo verso l’esterno ma ancor più fra di noi, dove si limitava senza dircelo la conoscenza reciproca quasi esclusivamente alla serata della riunione, confusa e complicata. In questo modo si condensavano nei nostri incontri tutte le tensioni e le nostal­ gie, e si ricreava uno spazio familiare fatto di dipendenza, di sentimenti infantili, di conflitti. Era come se la rottura di questo ambito protetto potesse impedire a qualcosa di succedere. Qualcosa di così inconsapevole che non poteva essere nominato, di cui non si poteva parlare, che dovevamo vivere per individuare».
«La modalità caratteristica per esprimere la delusione e la rabbia era l’assenza. Se il gruppo rappresentava una madre che rifiuta, abbandona, non risponde, non comprende, si reagisce fuggendo, impedendo il contatto, l’incontro. E’ importante, fondamentale, utilizzare gli stessi meccanismi del gruppo-madre, perché così è più facile nascondere lo scopo aggressivo dell’azione; d’altronde non venire, essere assenti, non comparire, è anche l’unico mezzo con cui si può insieme aggredire e sperare di non e sere visti, generare angoscie di abbandono e di separazione indirettamente, senza assumersi la responsabilità dell’aggressione».

«Volere il riconoscimento. Ma per che farne? Felicità d’essere o potere?
Volere il riconoscimento come un valore che le compagne danno alle proprie capacità all’interno di una reciprocità collettiva per essere amate, accolte, oppure volere il riconoscimento perché in esso si punta sulla delega dell’altra, sulla possibilità di gestire la sua dipendenza, si capitalizza la valorizzazione che fa delle nostre capacità e ci si “confronta” con lei perché si possa stagliare la nostra esistenza dalla differenza, dal paragone?»

«E’ stata proprio la presenza nel rapporti di gruppo di una componente aggressiva così grossa che, invece di frantumare il gruppo, lo manteneva unito come un collante a farmi pensare alla vendetta. […] Se nell’amore la tendenza è di assicurarsi la presenza dell’oggetto di amore per rinnovare ancora una volta il piacere, nella vendetta c’è la necessità di assicurarsi la presenza dell’oggetto per esprimere l’odio. […] II masochismo mi sembra la forma più primitiva, più rudimentale di vendetta; si agisce la rabbia contro se stesse, non avendo ancora percepito, e in seguito avendo paura di capire, che esiste un oggetto esterno, staccato, che si può aggredire. […] Le donne in questi anni con l’aborto e ora con la legge sullo stupro, hanno tentato di portare alla luce la violenza e la distruzione, non solo che avevano subito, ma che avevano anche fatto a se stesse con la loro connivenza, accettando, introiettando la legge dell’uomo, per la paura di separarsi da questo e di attaccarlo».

«Finalmente le compagne hanno acquistato contorni propri; quello che sono, quello che dicono, che fanno è cosa loro, non ti distrugge e non ti conferma, non è contro di te o in tuo favore. Tu puoi identificarti o non ritrovarti in loro, rifiutare o essere d’accordo, portare le tue esperienze e la tua visione delle cose accettando le loro, diverse dalle tue, come tanti contributi di storie e di esistenze differenti all’interno della nostra comune ricerca. Ma non è più in gioco la tua identità, tu esisti indipendentemente».

👉🏿👉 Sono alcuni frammenti del n. 11, anno 1980, di “Differenze”, espressione del movimento femminista romano degli anni Settanta. La rivista vive tra il 1976 e il 1982 ed ogni suo numero è curato da un collettivo diverso.

👩🏽‍🤝‍👩🏻 Questo n. 11, dedicato a “femminismo e psicanalisi”, è la testimonianza scritta di una pratica orale e può essere letta a più livelli. Come documentazione dei tentativi di introdurre lo strumento psicanalitico nel movimento femminista, come espressione di un momento storico ben preciso, come strumento attuale di analisi delle dinamiche dentro a un gruppo di donne (gruppo chiuso/gruppo aperto, bisogno di riconoscimento, potere, aggressività, sessualità, etc.).

✍ La rivista è stata analizzata da Federica Paoli, storica delle scritture femminili, nel volume Pratiche di scrittura femminista. La rivista “Differenze” 1976-1982, edito da Franco Angeli/Fondazione Badaracco nella collana Letture d’archivio.

📙 Il libro è consultabile alla Biblioteca dell’Unione femminile, dove sono conservati alcuni numeri originali della rivista.

🌐 L’intera serie di “Differenze” è consultabile online sulla biblioteca digitale Biblioteca Italiana delle Donne
https://bibliotecadelledonne.women.it/rivista/differenze/.

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