Dieci donne. Storia delle prime elettrici italiane (liberilibri, 2012) è il primo lavoro storiografico dedicato alle maestre marchigiane che nel 1906 ottennero il diritto di voto politico, senza mai poterlo esercitare, e al giudice che lo rese possibile. Marco Severini, storico marchigiano, ritaglia dallo sfondo della Belle Époque le figure di un gruppo di donne motivate, e di un giurista preparato e libero da paraocchi.

Le maestre: Carola Bacchi, Palmira Bagaioli, Giulia Berna, Adele Capobianchi, Giuseppina Graziola, Iginia Matteucci, Emilia Simoncioni, Enrica Tesei, Dina Tosoni, Luigia Mandolini-Matteucci. L'”insigne giurista”: Luigi Mortara. E intorno a loro un Paese, l’Italia appena unificata, che si muove a ritmi diversi: quello lento delle campagne e quello fibrillante delle città. Con le maestre a far da interpreti tra mondi, impegnate a mescolare passato, presente e futuro. A descrivere questo mondo interverrà anche la penna letteraria di Maria Rosa Cutrufelli qualche anno dopo la pubblicazione del volume in oggetto, che prende le mosse da un convegno di studi giuridici del 2002 e si sviluppa entro un rapporto virtuoso tra enti di conservazione e istituzioni cittadine.

Tratte letteralmente fuori dagli archivi dell’Ufficio anagrafico del Comune e della Biblioteca Antonelliana di Senigallia, le biografie delle dieci maestre marchigiane ci vengono incontro nei loro panni popolari e dignitosi, ma soprattutto con l’orgoglio a testa alta della donna nuova – colta, lavoratrice e soprattutto politicizzata.

Era la donna nuova che tanto spaventava una gran parte di cittadini dell’epoca. Si tratta di quegli stessi tutori (giovani e vecchi) della virilità messa a rischio dal mutare dei rapporti di genere, che saranno rassicurati dalla retorica bellica del ’15-’18 e reinsediati sullo scranno dall’avvento del nazionalismo, prima, e del fascismo poi (ne ha scritto tra gli altri lo storico Sandro Bellassai).

In mezzo ai fascisti, Lodovico Mortara era uomo d’altri tempi: di quelli che non c’erano più o quelli che sarebbero venuti poi. Prima della morte, avvenuta nel ’37, si era assicurato di lasciare scritto il rifiuto di commemorazioni ufficiali da parte del Senato fascista, come gli sarebbe toccato in virtù della carica di senatore a vita ricoperta dai tempi del governo Nitti (1919-1920). Del resto il regime lo aveva isolato da un pezzo, epurandolo dalla Magistratura già nel ’23.

Al nome del giudice Mortara rimane dunque attaccato questo bel capitolo di storia, che viene quindi scritta oltre un secolo dopo gli accadimenti.

[…] la sentenza Mortara non solo affrontava brillantemente l’aspetto nevralgico della questione [del suffragio femminile], cioè il silenzio della legge in materia – cui aveva fatto riferimento il pubblico ministero appellante che aveva sostenuto l’opinione secondo cui “alla donna, secondo la vigente costituzione dello Stato, non spettavano diritti politici”-, ma presentava come motivazione “davvero una perla” e ribaltava, con inusitata modernità, millenni di discriminazione e subordinazione femminile. (P. 103)

Da questa ‘favola’ ognuno ricavi la propria morale. Per me è l’occasione di sottolineare che l’utilità degli archivi perché la storia è qualcosa di vivo, che il presente genera e rigenera. E poi mi conforta sapere che il significato dei nostri atti ha il respiro più lungo di quello di una singola vita.

Eleonora Cirant