Giovedì 8 maggio 2025, ore 17.45 – 19.45. Unione femminile nazionale, Corso di porta Nuova, 32
Ingresso libero
Ada Negri tra musica e giornalismo. Conferenza-concerto alla scoperta della donna, la poetessa, la prosatrice
Con:
Duo Tracce. Clarissa Romani, soprano, Colette Cavasonza, pianoforte
Pietro Sarzana, saggista
Il Duo Tracce, specializzato in musica da camera, e Pietro Sarzana, cultore e curatore dell’opera di Ada Negri, uniscono le loro voci per farci scoprire la passione di una donna capace di trasformare un vissuto doloroso in lotta contro le ingiustizie. In scena le poesie di Ada Negri musicate da O. Respighi, R. Zandonai, F. P. Tosti, J. Ruenger, P. A. Tirindelli, G. Sgambati, L. Cornago, M. Anzoletti.
La vita intensa di Ada Negri, scomparsa il 3 febbraio 1945, traspare in tutti i suoi scritti: certamente le poesie, che le diedero la fama internazionale, ma soprattutto gli innumerevoli articoli, le recensioni, i ritratti e i romanzi dai quali si staglia la figura di una donna di profonda cultura e sensibilità personale, fortemente impegnata nel sociale.
Tra le fondatrici dell’Unione Femminile Nazionale e dell’Asilo Mariuccia, contribuì a fare di Milano un centro di azione e di pensiero all’avanguardia su temi quali le diseguaglianze sociali, l’autonomia culturale, economica e affettiva delle donne, l’educazione dei fanciulli.
L’iniziativa dispone dell’autorizzazione alla partecipazione in orario di servizio per il personale delle scuole lombarde di ogni grado e ordine. Su richiesta si rilascia attestato valido per l’aggiornamento del personale docente.
Pietro Sarzana ha curato di recente la raccolta di scritti di Ada Negri “La fama mi sorprese”. Articoli giornalistici (1903-1918) (PMP, 2024), il primo di una serie di cinque che verranno, e un’altra raccolta per Oscar Mondadori Poesie e prose (2020). Redattore della rivista genovese “Il gallo”, ha pubblicato Con rabbia e tenerezza: poesie, 1973-1991 (Lodigraf, 1991), Nell’assoluto del tempo (Ancora, 2006) e con Chiara Cremonesi La filigrana del dolore: poesie a quattro mani (s.n., 2015).
Duo Tracce, Clarissa Romani, soprano, Colette Cavasonza, pianoforte, è un progetto di ricerca, è il desiderio di condividerla, di viverla insieme al pubblico, raccontandone le protagoniste e i protagonisti, ma anche le difficoltà, i dubbi, l’entusiasmo che l’accompagnano. In questa cornice si inserisce anche la ricerca su repertori di musica da camera poco noti, se non sconosciuti, di compositrici e compositori vissuti tra il 1850 e il 1960.
Organizzano Duo Tracce e Unione femminile nazionale, con Associazione studi respighiani “Potito Pedarra” ETS, Iris, nell’ambito di Milanosifastoria
Informazioni e contatti Tracce.musica@libero.it, segreteria@unionefeminile.it
Canto
Selezione di brani dalla conferenza-concerto
Letture
I brani letti e commentati da Pietro Sarzana
Nell’aprile del 1906 è inviata speciale del «Corriere della Sera» a Napoli in occasione dell’eruzione del Vesuvio e del terremoto che ne consegue: nell’arco di otto giorni ella propone le Lettere da Napoli, cinque cronache che descrivono in maniera efficace la drammatica situazione delle popolazioni colpite dalla sciagura [Il brano proposto è tratto dal primo dei cinque articoli, intitolato Verso il Vesuvio]. Vengono offerti spunti di riflessione sulla «marmorea impassibilità, lapidaria, tragica» dei sobborghi partenopei coperti di cenere e sulla «bolgia dantesca» delle popolazioni vesuviane colpite, viene stigmatizzato il «cielo gravido di ferocia incombente su quella distruzione senza salvezza», «il senso di angoscia per la sciagura senza nome»; e nell’ultimo articolo viene espressa con una notevole enfasi la speranza che i derelitti si raccolgano in una «folla anonima che unisce tutte le forze, che cammina, cammina verso la sua perfezione, illuminata da un sogno di fraternità e di vittoria».
«Napoli! …» Sono dunque a Napoli? … E questo è Napoli? Nei sobborghi, in vicinanza della stazione non vedo che case grigie e desolate, l’aspetto d’un paese abbandonato, cumuli e strati di scorie, cenere e lapilli. Qua e là, una fiammella votiva tremolante davanti a un’immagine della Madonna o di S. Gennaro, in una cappelletta di pietra: qua e là donne lacere, dal viso spaventato, mute. Ma il cielo è quasi sereno ora. Nel cuore della città, in piazza Plebiscito, pel Rettifilo, lungo il Corso, lungo le vie principali, Napoli vera, Napoli napoletana, rumorosa e spensierata malgrado l’odore di arsiccio dell’atmosfera e lo strato nerastro che vela tutte le forme, ricomincia a vivere la sua magnifica vita di movimento e di fragore. Sotto la chiarità lunare delle lampade elettriche le carrozzelle alte e snellissime s’incrociano come saette da ogni parte: i vetturini vociano nella loro lingua, strascicata e musicale: passa velocissimo l’automobile del Duca d’Aosta che torna col generale D’Aglié da un giro sui luoghi del terrore: passa un altro automobile dove sorridono due elegantissime donne bionde: e carri, e carretti, e tram, e biciclette, e chiacchiericci, e canti, e risate.
Delitti d’amore esce in prima pagina sul «Corriere della sera» del 18 agosto 1905. Senza falsi pietismi, senza morbose disamine, senza inutili piagnistei, Ada definisce con lucidità il ruolo sociale dell’uomo e quello della donna, le motivazioni dell’uxoricidio per la donna e per l’uomo, l’aspirazione femminile a liberarsi dal giogo impostole dalla società per assumere un ruolo sempre più egalitario nei confronti del maschio: ma nota, ahimè, che il cammino da compiere verso un’effettiva parità dei generi è ancora ben lungo!
Le cronache quotidiane ne sono piene, in queste nostre terre latine ove il sangue è così ardente e Ie donne così belle. Ogni giomo, si può dire, aprendo il proprio giornale, il lettore o la lettrice ha la visione di qualche giovane popolana sfregiata in viso o colpita a morte dal proprio fidanzato, per gelosia: di qualche leggiadra donna uccisa a colpi di rivoltella dnl proprio marito, per gelosia: di qualche “padrone” avvelenato lentamente, nell’ombra, dalla propria moglie, assetata di libertà. E i due moventi sono ben chiari e ben distinti, nel delitto maschile e in quello femminile: del primo è sempre – o quasi – la gelosia: del secondo è sempre – o quasi – la sete di libertà. […]
Povere donne!… La vita scorre, per la maggior parte di esse, così umile e grigia e piatta!… La casa coi suoi quieti lavori, col tichettio della macchina da cucire, col capriccioso chiacchierio dei bimbi ai cui l’orecchio si avvezza fino a non sentirlo più… la casa, per le più fortunate. Per le altre, l’opificio, il laboratorio, i registri del banco con quelle orribili cifre allineate… […]
La civiltà passa e la società cammina. In varie nazioni è stata da molti anni sancita e applicata la legge sul divorzio: in Italia se ne sta discutendo il progetto: sorgono da ogni parte associazioni femminili: le Università sono piene di graziose studentesse: anche i più umili impieghi sono presi d’assalto dalle donne, necessariamente travolte e quasi snaturate dalla mostruosa battaglia economica che si complica ogni giorno più. Dall’operaia alla dottoressa, la donna moderna tende con tutte le sue forze verso un’ideale di libera e dignitosa vita.
Eppure, la possibilità del divorzio, l’uguaglianza economica, ogni raffinatezza di civiltà non potranno impedire che un marito o un amante ingannato lasci partire il colpo della sua rivoltella verso la donna che egli ama; e questo, perché l’ama.
L’articolo, uscito sul «Corriere della Sera» il 15 febbraio 1909, trae spunto dal suicidio di un nobile napoletano, per giugnere a constatare che negli anni il suicidio è dilagato, «ha assunto proporzioni di un contagio», diffondendosi maggiormente presso le classi sociali più alte, più acculturate. Ada Negri propone una via d’uscita da questo “circolo vizioso” nel ruolo della cultura, che deve rilanciare tutto ciò che di positivo c’è nella vita, far cogliere le crisi non come espressione di morte, ma sinonimo di trasformazione, di evoluzione, di progresso.
In ogni paese, in ogni classe, sotto ogni forma, per ogni causa sia pur futile e miserabile, il suicidio si compie e la morbosità del suo esempio dilaga.
Sì, lo so: il nostro sangue è povero, i nostri nervi sono stanchi, le nostre energie di resistenza diminuite. Qualcuno può anche pensare e dire che chi si uccide volontariamente, essendo un debole, compie un necessario atto dì selezione. Bisogna tuttavia notare che quasi sempre il suicida è un progredito, uno che ha studiato, che ha in qualche modo stancato il suo cervello: la cronaca del suicidio fra contadini è rarissima, e l’operaio disoccupato, prima di giungere alla crisi che lo butta nel primo fosso che trova, passa per la trafila di tutte le miserie, bussa a tutte le porte per aver lavoro, s’avvilisce fino alla bettola e all’ubbriachezza, s’aggrappa a tutti gli uncini dell’esistenza – e di lui si può dire che è la vita che lo scaccia da sé.
I vagabondi non s’ammazzano: cadono qualche volta, uccisi dallo sfinimento, dal freddo e dalla neve, sulle strade deserte. Più l’uomo si raffina, maggiori e più delicati bisogni crea al suo cervello e a’ suoi sensi, e più s’infiacchisce in lui la facoltà di resistenza, s’accentua l’intolleranza nervosa. La vita ad alta pressione della grande città, il suo movimento quasi frenetico, il suo rumore quasi assordante, non sono fatti certamente per mantenere in un sereno equilibrio le forze d’un individuo. A galla non si sostengono che i fortissimi o gli insensibili: i deboli affondano. Così le cronache degli «stanchi della vita» riempiono sempre più, e spaventevolmente, le cronache dei giornali.
Che fare? …
Le città s’ingrandiscono giorno per giorno, la civiltà continua e continuerà la sua corsa in automobile ora, in aeroplano fra poco, senza preoccuparsi menomamente dei cadaveri lasciati sulle strade. È naturale. Dunque, che fare? […]
Incoraggiamo con l’esempio, con la letteratura nuova, con nuove scuole, tutto ciò che è dinamica di forze: escludiamo tutto ciò che è negazione, quindi infiacchimento, regresso e morte. La morte non esiste. Non esiste che la trasformazione. Se l’uomo fosse convinto di ciò, e della legge d’evoluzione che governa tempo atomi esseri e spiriti, troverebbe perfettamente inutile il suicidio.
L’articolo, intitolato Le bambole vive, esce sulla «Stampa» il 21 dicembre 1913: Ada prende in esame la vita complicata e precaria delle indossatrici, non limitandosi però a condannare lo sfruttamento della donna, di cui si apprezza la bellezza a prescindere dall’intelligenza, ma giunge a paragonare la triste parabola delle mannequins con l’esistenza di ciascuno: perché tutti noi, «povere bambole stanche», quando diventiamo vecchi e inutili alla società veniamo liquidati senza pietà.
A Parigi, a Berlino, a Vienna le più potenti case di mode assoldano appositi impiegati i quali vanno attentamente esplorando le piccole sartorie, i magazzini di terz’ordine ed i quartieri poveri, per scovare (e non è difficile) le giovani più belle, di più eretta e formosa persona, disposte ad accettare la carica di… manichini. Ne son necessarie di tutte le misure prescritte agli abiti fatti: dai quarantadue, credo, ai sessanta centimetri di taille.
Classificate e imbustate a dovere, pettinate da maestri dell’arte, coi capelli, passati talvolta all’ossigeno e all’henné, secondo il tic della moda, con unghie lucentissime uscite di fresco dalle cure sapienti degli utensili adatti, con piedi calzati a puntino, dall’aurora al tramonto esse rimangono nelle sale di prova, succintamente vestite di corte guaine nere o bianche, scollate e senza maniche, sulle quali le vesti da indossare scivolano senza difficoltà.
Non importa affatto che sieno intelligenti: si domanda loro che sieno belle, agili di portamento, flessuose nel passo, armoniose nei gesti, instancabili nella pazienza.
[…] E l’esistenza altro non è se non un’immensa e assai volubile casa di mode, che ci liquida, povere bambole stanche, quando siamo vecchi o malati, e non possiamo più far bella mostra di noi, e onore alla Ditta.
L’articolo, intitolato Per un grido, esce sul «Marzocco» il 26 febbraio 1911 per ribattere alle contestazioni che aveva suscitato un precedente articolo negriano, Un figlio, uscito sempre sul «Marzocco» una decina di giorni prima. Ada sostiene con fermezza il diritto della donna di rifiutare un matrimonio di convenienza, un matrimonio deciso dai genitori, in sostanza un matrimonio senza amore. Ma va oltre, giungendo ad affermare che anche fuori dal matrimonio una donna ha diritto di generare e crescere un figlio, senza per questo dover subire la condanna irremissibile dei benpensanti. La donna in sostanza sta combattendo per conquistare quella libertà che da sempre è stata “regalata” all’uomo.
[…] tutte codeste donne, recanti ciascuna un chiaro segno di nobiltà spirituale e forti di una silenziosa vittoria ottenuta sopra quella parte di loro stesse che proclamarono, dentro di sé, inferiore e bassa, semplicemente perché ne ebbero paura, pensano e agiscono secondo le imposizioni del loro tempo. Domani, seguendo la legge di evoluzione che accompagna il progredire della civiltà, non penseranno né agiranno più così.
Tali come ora si rivelano, dimostrano apertamente che infinita varietà di forme possa assumere la natura umana, e come l’inibizione dettata da una legge sociale possa divenire una corazza di difesa più o meno comoda a seconda dei temperamenti.
Esse, tuttavia, non misurano forse interamente (o non vogliono convenirne per un senso di intimo pudore) la grandezza del sacrificio che compiono. Vestali purissime e forti, a custodia dì una fiamma che esse hanno trovata accesa da altri, avvinte a voti che altri ha pronunciati per loro, attendono la liberazione. Ma l’età fugge, la giovinezza sfiorisce, i capelli incanutiscono, la vecchiaia si avanza arida, sola, senza cari ricordi. E alcune volte, a mezzo del difficile cammino, quando le imperiose ragioni di vivere si acuiscono condensandosi di tutti i succhi rimasti intatti, l’equilibrio fisico barcolla, trascinando con sé l’equilibrio morale: qualche molla si spezza, qualche ingranaggio interno si accelera o si arresta: e abbiamo i casi d’inasprimento e quelli d’isterismo e quelli di follia, che si esplicano specialmente in manie religiose, manie di persecuzione e forme di misantropia. […]
L’uomo, che sente d’essere il padrone, si chiede, inquieto, le ragioni del sempre crescente malinteso esistente fra lui e la donna. La donna gli sfugge, anche quando egli crede di stringersela fra le braccia e sul cuore, di assimilarla alla propria carne e al proprio spirito. Ella pensa troppo ormai, e lavora troppo: l’elevazione morale, l’indipendenza materiale tendono a fare di lei un essere autonomo. Fra i due, che cosa farà il figlio? …
Il problema è terribile, ed ancora velato d’ombra come il volto della Sfinge: ed io non ho creduto di risolverlo col mio grido d’ieri, né credo di risolverlo con queste mie trepide parole d’oggi, ove sta più amore che orgoglio, più tristezza che ribellione. Solo penso che la salvezza non possa esistere che nella libertà; ma quando la psiche umana sia giunta così in alto che in essa l’energia volitiva domini l’ardore dell’istinto e il tumulto delle passioni.