Gina Lombroso: medicina, scienza e «anime di donne»
relazione di Marina Calloni (Università di Milano-Bicocca) al seminario Che genere di lavoro? – Le dottore (Unione Femminile Nazionale, Milano, 20 aprile 2016)
Introduzione
Le storie di donne professioniste fra la fine Ottocento e inizio Novecento non sono ancora state adeguatamente analizzate e in particolare non sono state ancora sufficientemente studiate le difficoltà che queste incontrarono a partire dagli studi superiori e universitari fino all’ambito lavorativo, per affermare le proprie ambizioni e decisioni.
In tale ambito, sono degne di nota gli esempi di alcune donne laureate in medicina, che seppero unire alla loro professione anche attività sociali e l’impegno politico. Assieme ai casi più noti di Maria Montessori e Anna Kuliscioff, intendo qui piuttosto considerare la figura di Gina Lombroso, tanto interessante, quanto discussa.
Cercherò dunque dividere il mio intervento in tre parti, come segue:
- Il contrastante riconoscimento delle professioniste e delle dottore in Italia.
- La dottora Gina Lombroso.
- La controversa teoria sull’essenza delle “anime di donna”.
1. Il contrastante riconoscimento delle professioniste e delle dottore in Italia
A partire dal secolo scorso, la storia delle donne ha cercato di raccontare ciò che le narrazioni ufficiali hanno spesso sottaciuto: vale a dire non soltanto il ruolo delle donne nel mondo del lavoro e le lotte da loro compiute per il riconoscimento dei diritti civili e della piena cittadinanza, bensì anche la loro condizione effettiva nella vita quotidiana, fatta di soprusi e discriminazioni. Un nuovo approccio alla storia materiale e agli attori sociali negletti ha dunque mirato a dar valore a ciò che la “scienza normale” non considerava come uno studio di interesse accademico: vale a dire la sfera della riproduzione non solo biologica, bensì anche domestica. Il dominio privato dell’oikos viene così a interagire con l’ambito pubblico della politica attraverso lo spazio variegato del mondo del lavoro.
Ma se la vita e lo sfruttamento delle donne nelle fabbriche è già stato molto studiato, minore attenzione è stata prestata alle figure di professioniste – per altro elitarie –, che avevano unito senza soluzione di continuità al diploma universitario la vita lavorativa, l’impegno sociale di tipo filantropico o la militanza politica.
La storia delle dottore (dizione preferibile al nominativo “dottor-esse”, formato con l’aggiunta del suffisso femminilizzante di –esse) presenta ancora molti aspetti che sarebbero da indagare, nonostante la notorietà conseguita dalle poche donne che avevano conseguito una laurea fra Ottocento e inizio Novecento.
La storia di dotte, erudite, teologhe e “laureate” in filosofia è esemplare nell’indicare le grandi difficoltà che le donne incontrarono per il riconoscimento culturale, giuridico e politico delle loro capacità e competenze. Si pensi all’enorme scetticismo con cui le gerarchie ecclesiastiche avevano “accettato” le dotte della Chiesa, da Santa Caterina Benincasa da Siena, morta nel 1380 ma dichiarata dottore della Chiesa solo nel 1870, a Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, oblata benedettina, che solo dopo la sua dissertazione in filosofia nel 1678 fu accolta dal Collegio dei medici e dei filosofi dello Studio di Padova. Ora è considerata come la prima donna laureata al mondo. A loro era tuttavia precluso l’insegnamento pubblico, in quanto donne.
Da quanto si può evincere da questi brevi esempi, la formazione di “intellettuali” donne è stata primariamente connessa all’acquisizione della scrittura e alla capacità di lettura, attività che dal Medioevo in poi erano praticate solo nei monasteri, in quanto funzionali alle “virtù teologali” e alla conoscenza delle sacre scritture, nella mancanza di scuole pubbliche e nella proibizione dell’istituzionalizzazione dell’educazione femminile. Ma poche erano alfabetizzate.
A partire dall’Ottocento, a causa dell’eredità rivoluzionaria incompiuta (poiché i diritti umani e civili erano stati dimidiati e sottratti alle donne – si pensi alla morte di Olympe de Gouges) e grazie ad una sempre più massiccia presenza femminile nel settore industriale incipiente, le donne come lavoratrici – operaie, impiegate o professioniste che fossero – cominciano a mobilitarsi politicamente per un loro riconoscimento pubblico.
Nel corso del processo di secolarizzazione avvenuto anche in ambito educativo, una volta che l’educazione e il “sapere” non venivano solo impartiti nei monasteri, a partire da metà Ottocento le prime donne che si laurearono non furono tuttavia né in filosofia, né in teologia, né in materie educative, bensì in medicina.
La prima laureata nel Regno d’Italia fu in medicina nel 1877 presso l’Università di Firenze. Si tratta di Ernestina Paper, un’ebrea russa, avente le stesse origini culturali e nazionali di Anna Kuliscioff. Prima di lei c’era stata una laureata a Zurigo nel 1867 e una negli Stati Uniti nel 1849. La seconda laureata in Italia fu sempre un medico nel 1878, Maria Farnè Velleda, laureatasi all’Università di Torino.
La lotta per il sapere e per il riconoscimento delle professioni femminili fu assai lunga. Una volta superata la barriera dell’iscrizione alle università, gli ostacoli erano solo posticipati e rimandati alla difficoltà di trovare un’adeguata collocazione nel mondo del lavoro.
Tali difficoltà costellarono tutto il Novecento, caratterizzando anche l’Italia repubblicana. Fu infatti soltanto con la sentenza n. 33 del 13 il maggio 1960 che la Corte Costituzionale (grazie all’istanza presentata da una giovane laureata in scienze politiche, Rosa Oliva) abolì le discriminazioni di genere nelle carriere pubbliche. Da allora, le laureate poterono entrare in prefettura e diplomazia, ma solo dal 1963 in magistratura. Dopo ben 15 anni dall’entrata in vigore della costituzione repubblicana, la legge n. 66 regolamentò dunque “l’ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni”, da cui conseguì il primo concorso nel maggio 1963, aperto per la prima volta a candidate.
Tale ritardo ci induce a credere che l’idea pseudo-scientifica del neurologo Paul Julius Möbius relativa a una presunta inferiorità mentale e fisiologica della donna fosse ancora alquanto attiva nella seconda metà del Novecento. Era invece evidente la confusione che “scienziati” commettevano fra attitudini culturalmente determinate dalla mancanza di educazione e le presunte deficienze “naturali” di tipo psichico e fisiologico che attribuivano all’essere femminile.
Le parole arroganti e sapute di Möbius, scritte a proposito di donne laureate in medicina, che a suo parere avrebbero avuto scarso futuro, contraddicono non solo ciò che è poi realmente accaduto (ovvero la femminilizzazione delle facoltà di medicina), bensì anche ciò che era evidente nella realtà stessa in cui viveva.
“Più volte i medici si sono preoccupati della pretesa delle donne di essere ammesse allo studio della medicina. Forse non valeva la pena preoccuparsene. Se da un lato non si può negare che (…) le donne che esercitano la medicina, se debitamente guidate e invigilate, possono rendersi utili (…), dall’altro canto quanto più si va innanzi, tanto più l’idea del dottorato femminile va perdendo d’attualità. (…) Dunque, dal momento che tanto la medicina, quanto le stesse donne, hanno ben poco da guadagnare dallo studio medico femminile, la cosa è di poca importanza.” (P. J. Möbius, L’inferiorità mentale della donna, Einaudi, Torino, 1978, p. 17.)
Nel processo di “emancipazione” femminile e di formazione delle identità lavorative/ professionali, la facoltà di medicina – più che l’insegnamento – sembra accorpare più aspirazioni, ambizioni di conoscenza e potenzialità delle donne, che superano la tradizione, rigettandola nel futuro. Medicina è una disciplina che raccoglie più facoltà intellettive e interessi pratici: è uno studio scientifico che implica un’attitudine alla cura e all’intervento sociale.
Le dottore che andremo oggi a discutere – Montessori, Kuliscioff e Lombroso – hanno tutte in comune questi intenti: scientifico, professionale, sociale e politico, dove l’attività medica è sussunta sotto più alti ideali morali ed educativi, che mirano a cambiare l’esistente fatto di povertà e malattie.
Queste dottore sono state – anche se in modo diversi – “scopritrici” di cause che determinavano malattie e insieme inventrici di metodi innovativi, grazie al diverso sguardo di genere con cui andavano a connettere fenomeni patologici con cause sociali, sovvertendo la tradizionale visuale della scienza normale e rivoluzionando paradigmi scientifici consolidati. E il loro intervento cadeva proprio su soggetti esclusi o misconosciuti, in particolare su donne e bambini, la cui salute e benessere psico-fisico erano solitamente concepiti secondo l’ottica fisiologica del maschio adulto, per cui non si comprendevano le precipuità del diverso funzionamento e crescita.
2. La dottora Gina Lombroso
In tale contesto, si situa bene la figura di una dottora alquanto controversa, che si distacca nettamente da altre tipologie di donne “emancipate”. Si tratta di Gina Lombroso, figlia di Cesare – noto antropologo e psichiatra, al centro di innumerevoli critiche – , nata a Pavia nel 1872 e morta in esilio a Ginevra nel 1944, dove si era rifugiata col marito Guglielmo Ferrero per via del suo antifascismo.
Qualche informazione bio-bibliografica ci aiuterà a introdurre meglio la figura poliedrica di Gina Lombroso in Ferrero, sui cui lavori ho cominciato a lavorare alcuni anni fa, al fine di mettere in luce ambivalenze e potenzialità. In particolare, ho curato il carteggio tra Amelia, Carlo e Nello Rosselli e i Ferrero Lombroso (Calloni e Cedroni, 1997) e svolto alcune ricerche, finalizzate a mettere in risalto il fondamentale apporto dato nell’Italia unita da intellettuali italiane di origine ebraica, socialmente impegnate, interessate alla questione femminile e all’infanzia, anti-fasciste, ma ingiustamente dimenticate dal dopoguerra in poi (Calloni, 2003, 2004).
Gina Lombroso nacque a Pavia, dove il padre aveva ottenuto una cattedra d’insegnamento. Nel 1878, Cesare e Nina (De Benedetti) si spostano a Torino assieme ai figli Gina, Paola e Ugo, ai quali impartiscono un’educazione liberale e anti-conformista, che si scontra col clima culturale borghese e in alcuni casi antisemita della città. L’accoglienza non fu dunque certamente calorosa. Gina è molto legata alla sorella Paola che si dedicherà alla cura dell’infanzia, scrivendo libri e promuovendo iniziative umanitarie, fra cui le “Bibliotechine rurali” e la “Casa del Sole”.
A Torino, Gina e Paola conosceranno, ancora bambine, Anna Kuliscioff, della cui amicizia rimane traccia in alcune corrispondenze (conservate presso l’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” di Firenze), dove da informazioni familiari si passa allo scambio di libri e a suggerimenti scientifici. Si tratta di un legame che si interromperà solo con la morte di Anna nel 1925. Gina e Paola rimasero folgorate dalla personalità di Anna che era stata protetta come studente in medicina da Cesare. Anna era una donna russa, ebrea, prima anarchica e poi socialista, madre singola, in quanto non sposata, nonostante avesse avuto una figlia, Andreanna (sincrasi dei due nomi genitoriali) da Andrea Costa, dal quale si separerà presto, unendosi a Filippo Turati. Non è dunque improbabile che Gina abbia preso a modello, nella sua decisione di studiare medicina, proprio la dottora Anna, che si occupava di “malattie delle donne e dei bambini” e alla quale faceva spesso visita a Milano con la famiglia. Anna abitava in uno splendido appartamento di Portici Galleria 23, che era per altro la sede di Critica Sociale, diretta da Turati, ed era di fatto il centro culturale per antonomasia del tempo.
Fin da giovani, Gina e Paola si impegnano in attività sociali, decidendo anche di andare a lavorare con operai. Nonostante il clima liberale in cui le due sorelle crebbero, tuttavia i pregiudizi sulle professioni femminili erano ancora assai influenti. Ne sono testimonianza le difficoltà con cui Gina sceglie i propri studi universitari, salvo poi pentirsene.
Da alcune note biografiche, si può evincere come fin da bambina Gina concepisse se stessa come funzionale all’attività del padre o comunque ai bisogni della famiglia in generale. La sua scelta di iscriversi a medicina fu dunque principalmente dettata dal suo “bisogno” di rendersi utile al padre, anche se non fu la sua prima scelta, bensì il frutto di una successiva decisione. Terminato il liceo, Gina doveva scegliere cosa studiare e diventare. Ma nessun’altra sua compagna si era iscritta alla facoltà di medicina e alcuni colleghi del padre (non si sa se per via di pregiudizi patriarcali o perché incerti sulle reali capacità intellettive di Gina, o forse per entrambe le ragioni) l’avevano dissuasa dall’intento. Gina si iscrisse così alla facoltà di lettere, terminando – insoddisfatta – i propri studi.
Nel frattempo, Gina aveva conosciuto Guglielmo Ferrero (che sposerà nel 1901 a Torino), che stava allora collaborando come co-autore all’opera di Cesare Lombroso su La donna normale, la prostituta e la donna delinquente, pubblicata nel 1893 dall’editore Bocca, quando era ancora vietato ai medici fare visita alle carcerate, che erano così lasciate in uno stato di totale abbandono, indigenza e sopraffazione (Calloni, 1994). Seppur nato con le migliori intenzioni sociali e scientifiche, tuttavia tale studio positivista racchiudeva enormi pregiudizi culturali, scambiati per datità naturali. Gina lavorerà a tale libro tant’è che la 4° edizione del 1923 è “rifusa ed accresciuta secondo le note postume di C. Lombroso dal Dr. Gina Lombroso con 7 Tavole e 15 Figure nel testo”. Cesare era deceduto nel 1909 e Gina era divenuta a tutti gli effetti l’erede scientifica e la custode dell’opera del padre. A segno di tale legame, Gina continuerò a pubblicare le proprie opere col nome natale di “Dr. Gina Lombroso”, con l’eccezione della cura di alcune opere postume del figlio Leo, dove si firmerà Gina Ferrero.
Anche dopo il matrimonio, Gina continuerà il suo lavoro intellettuale di scienziata sia come collaboratrice del padre (sul quale scriverà una ponderosa biografia), sia come autrice autonoma. Ricoprirà, infatti, un ruolo fondamentale nelle ricerche, nella riedizione delle opere di Cesare e nel lavoro in clinica, occupandosi soprattutto di psichiatria e antropologia.
Tale gravoso impegno professionale creerà non pochi problemi col marito Guglielmo, per altro da lei descritto in una nota come “collerico”. Nel frattempo, Gina ha due figli: Leo e Nina. Comincia anche a lavorare alla questione infantile (secondo un approccio evolutivo) e alle problematiche di genere, reinterpretando la teoria lombrosiana della natura umana secondo una visione ontologica dell’”essenza della donna”, differenziando così non solo le caratteristiche bio-fisiologiche due sessi, bensì le determinazioni psico-sociali (Lombroso, 1917, 1918, 1921).
Allo scoppio della prima guerra mondiale, come il marito Gina assunse una posizione interventista, contro Germania e Austria. Intanto, nel 1916 la famiglia Ferrero Lombroso si era trasferita a Firenze per motivi di lavoro. Qui Gina fonda l’Associazione Divulgatrice Donne Italiane (ADDI), con lo scopo di pubblicare libelli sulle problematiche femminili, sull’educazione, sulla guerra e su questioni sociali. Sempre in coerenza con i dettami essenzialistici lombrosiani, Gina prenderà una posizione contro il voto alle donne (Lombroso 1919), in contrasto con altre sue amiche fiorentine, fra cui Amelia Rosselli e Laura Orvieto.
L’adattamento di Gina a Firenze non è facile, anzi diventerà ancor più difficile subito dopo l’avvento del fascismo nel 1924. Gina e Guglielmo saranno da subito anti-fascisti e per questo controllati dalla polizia, al punto che i Ferrero Lombroso decideranno di trasferirsi nella loro tenuta di campagna, chiamata l’Ulivello, a Strada in Chianti. Gina diventa intanto una scrittrice di fama internazionale (col marito avevano fatto viaggi di lavoro anche nell’America del Nord e del Sud), tanto da diventare molto più nota all’estero che in patria, cosicché molte furono le sue opere ad essere tradotte in molte lingue.
Poiché la sorveglianza si era fatta sempre più stretta, nel 1930 la famiglia Ferrero decide di emigrare, scegliendo Ginevra come città di lavoro e di esilio. Guglielmo accetterà una cattedra di storia presso l’Institut des Hautes Etudes Internationales. Casa Ferrero a Ginevra diventa da subito un centro di incontro per fuoriusciti e di ospitalità per gli antifascisti. Una tragedia colpisce però i Ferrero: il figlio Leo muore nel 1933 in un incidente d’auto a Santa Fé nel Nuovo Messico. Gina si occupa allora dell’edizione delle opere del figlio e delle sue commedie teatrali.
L’impegno di Gina è dunque profuso tra opere scientifiche personali (pubblicate spesso in francese) e cure familiari, come l’edizione delle opere del padre e la stesura della biografia del figlio. Fu anche editrice di scritti di antifascisti. Infatti, Gina aveva prelevato e diretto la casa editrice “Capolago”, che diventerà uno dei maggiori centri di diffusione della cultura antifascista all’estero. Con l’inizio della seconda guerra mondiale, Gina e Guglielmo accrescono dunque le loro attività politiche e le attività a sostegno di ebrei fuoriusciti.
Guglielmo morirà nel 1942 prima della fine del conflitto, così come Gina nel 1944. Gina e Guglielmo moriranno dunque in esilio, senza poter assaporare la gioia della sconfitta del nazi-fascismo e poter dunque far ritorno in un’Italia libera e democratica, così come loro l’avevano sognata.
3. La controversa teoria sull’essenza delle “anime di donna”
Le attività della Dr. Gina Lombroso, laureata in lettere e in medicina, si manifestarono dunque in molti modi diversi. Fu: I. Medico come aiuto del padre in clinica; II. Scienziata: come co-curatrice di ricerche del padre e come autrice autonoma; III. Scrittrice per interventi pubblici; IV: Attivista su questioni relative alla condizione delle donne; V. Biografa a ricordo delle vite del padre Cesare e del figlio Leo.
Tuttavia, pur mossa dalle migliori intenzioni scientifiche, etiche e sociali, la “fedeltà” al padre – che significò una reinterpretazione dei dettami positivistici in senso essenzialistico per quanto riguarda i sessi – fu indubbiamente la causa di molte contraddizioni in Gina, come donna, scienziata e attivista.
Tale crogiolo, fatto di responsabilità e libertà, può essere ben sintetizzato attraverso le parole della figlia Nina. In una breve nota biografica, rimasta inedita per molti anni e da me pubblicata nel 1999, la figlia Nina Ferrero in Raditsa annota che:
“Le contraddizioni nella vita di Gina iniziano fin dalla sua fanciullezza. Nella sua autobiografia ella racconta di non aver avuto desideri, esigenze e di essere stata docile, ma nello stesso tempo di aver amato ‘i giochi maschili’, guardie e ladri, corse, le arrampicate sugli alberi. Non sembra che Gina avesse avuto specifici desideri per sé, o per la propria vita, nonostante dall’età di cinque o sei anni cominci a sentire la necessità di dover aiutare il padre e di assumere un ruolo di mediazione fra le fortissime personalità della famiglia. Gina non viene ritenuta una bambina molto brillante, tant’è che il padre la chiama ‘la mia piccola asinina’, nonostante che in un solo anno compia il lavoro di cinque anni di ginnasio.” (in M. Calloni, 1999)
Nell’ultima pagina, Nina annota però:
“Da aggiungere alla prima pagina vicino a contraddizioni: La sua maggiore contraddizione ha in ogni caso a che fare col suo lavoro in un senso specifico. Gina sottolinea l’importanza per la donna di rimanere donna e di avere dunque costantemente cura della propria famiglia. Tuttavia ella agì in modo tale da diventare una scrittrice alquanto affermata. Poteva inoltre far affidamento su un buon aiuto e mai pose il proprio lavoro davanti ai nostri bisogni. Tuttavia Gina non fu certamente una donna di casa.” (op. cit.)
La testimonianza di Nina Ferrero Raditza è indice delle intrinseche contraddizioni che costituivano la complessa personalità di Gina. Da una parte, era una scienziata che voleva ribadire, radicalizzandola, la prospettiva del padre a proposito della differenza essenziale fra il sesso maschile e quello femminile, pur ammettendo un processo evolutivo della specie che – secondo i dettami positivistici – prevedeva un mutamento non soltanto biologico e ambientale, quanto sociale e culturale. Dall’altra parte, Gina era una donna che voleva sostenere – anche a nome di altre – la necessità di preservare i propri spazi vitali all’interno della casa, al fine di evitare l’invasione degli uomini in questo ambito. Questa fu una delle ragioni della sua opposizione al voto alle donne, senza però che lei stessa fosse una tradizionale donna di casa, che lottava per “tutelare” il suo spazio domestico. Era bensì una intellettuale affermata che passava buona parte del suo tempo a scrivere, per cui – contro le mode femminili del tempo che restringevano i corpi in corsetti – preferiva indossare ampi abiti a foggia orientale con larghe maniche, tali da permetterle di lavorare senza impedimenti.
Gina amava studiare le inarrestabili trasformazioni sociali allora in corso, che prevedevano però un radicale cambiamento delle identità collettive e quindi delle relazioni fra uomini e donne. Si opponeva però a tali trasformazioni, portando a suo supporto studi scientifici che talvolta si fondavano più su pregiudizi che dati di realtà, sostenendo il contrario delle evidenze.
Rimane tuttavia interessante la critica sociale mossa da Gina contro l’imperante industrializzazione e le forme di estraneazione (o alienazione) che tale processo produceva, soprattutto a danno dei lavoratori. Gina tratta tale questione nel testo su Le tragedie del progresso meccanico. Origine – Ostacoli – Trionfi – Sconquassi del macchinismo (pubblicato da Bocca a Torino nel 1930 e ristampato a Lugano per le Nuove Edizioni Capolago nel 1939), riprendendo poi le principali tesi in Le Retour a la Prospérité. Les erreurs du passé et les taches de l’avenir, pubblicato a Parigi da Payot nel 1933.
Nei suoi testi, Gina tende a “sfatare il mito del macchinismo”, ovvero quella nuova religione, secondo la quale il progresso tecnico avrebbe portato felicità per tutti gli umani, un’intuizione che Gina aveva maturato fin dalla gioventù, quando aveva assistito all’enorme crisi economica che attanagliava il neonato Regno d’Italia, a fronte di promesse du bonheur, andate deluse. La tesi che Gina intendeva sostenere era piuttosto la convinzione che l’industrialismo accentratore colossale, aiutato dalle macchine, non avrebbe potuto far altro che “ledere la morale generale”.
Le posizioni sostenute da Gina Lombroso trovano conferma nelle teorie del progresso negativo, come elaborate a quel tempo da De Mann e Benda. Contraddicono tuttavia la visone teleologica di un progresso infinito, come era stato sostenuto dal positivismo aureo. E forse in questa posizione critica consta l’autonomia di pensiero di Gina rispetto al padre, accortasi dei limiti della scienza nella sua versione tecnologica e deterministica. Il testo contiene inoltre alcune analisi delle ripercussioni disastrose che crisi economiche in società industrializzate hanno sulla popolazione, che sembrano essere di una certa attualità anche nell’età della globalizzazione, caratterizzata dall’aumento esponenziale delle povertà, sperequazioni sociali e disuguaglianze.
Il pensiero contro-corrente di Gina, indipendente da mode e opportunismi, dimostra così contraddizioni unitamente a potenzialità analitiche, che lasciano però inevase molte domande, alle quali non riusciamo ancora oggi a rispondere, soprattutto in merito a come poter conseguire la prosperità per tutti e cosa e come siano le “anime delle donne”.
Bibliografia primaria
Alcune opere di Gina Lombroso
Riflessioni sulla vita. L’anima della donna. Libro I: La tragica posizione della Donna, Firenze: Associazione Divulgatrice Donne Italiane, 1917.
Riflessioni sulla vita. L’anima della donna. Libro II: Conseguenze dell’altruismo, Firenze: Associazione Divulgatrice Donne Italiane, 1918.
Il Pro e il contro. Riflessioni sul voto alle Donne, Firenze: Associazione Divulgatrice Donne Italiane, 1919.
Nuove vite di donna. Autobiografie raccolte da Gina Lombroso, Bologna, Zanichelli, 1929.
Cesare Lombroso. Storie della vita e delle opere narrate dalla figlia,II Bologna: Zanichelli, 1921.
Le tragedie del progresso meccanico. Origine – Ostacoli – Trionfi – Sconquassi del macchinismo, Torino: Bocca, 1930; ristampato a Lugano: Nuove Edizioni Capolago, 1939.
Le Retour a la Prospérité. Les erreurs du passé et les taches de l’avenir, Paris: Payot, 1933.
Lo sboccio di una vita. Note su Leo Ferrero-Lombroso dalla nascita ai vent’anni, Torino: Tipografia C. Frassinelli, 1935; ed. svizzera: Lugano: Nuove Edizioni Capolago, 1936.
Bibliografia secondaria
Sulla figura di Gina Lombroso:
Dolza D., Essere figlie di Lombroso. Due donne intellettuali tra ‘800 e ‘900, Milano. Franco Angeli, 1991.
Altre ricerche:
Calloni M., “La costruzione bio-antropologica della ‘normalità’: Lombroso-Ferrero e il femminile”. In: L. Cedroni (ed.), Guglielmo Ferrero. Itinerari del pensiero, Napoli: ESI, 1994, pp. 739-780.
Calloni M., Cedroni L. (a cura di), Politica e affetti familiari. Lettere dei Rosselli ai Ferrero (1917-1943), Milano: Feltrinelli 1997.
Calloni M., “Gina Lombroso tra scienza, impegno civile e vita familiare. Alcuni appunti bio-bibliografici”. In: L. Cedroni (ed.), Nuovi studi su G. Ferrero, Roma: Aracne, 1999, pp. 273-294.
Calloni M. (Auto)biografie di intellettuali ebraiche italiane: Amelia Rosselli, Laura Orvieto e Gina Lombroso. In: L. Borghi, C. Barbarulli (eds.), Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura, Cagliari: CUEC, 2003, pp. 139-158.
Calloni M. “Esilio: empatie e passioni politiche. Amelia Rosselli, Gina Lombroso, Laura Orvieto”. In: R. Schulte e X. Von Tippelskirch (a cura di), Reading, Interpreting and Historicizing: Letters as Historical Sources, EUI Working Paper HEC no. 2004/02, Firenze: European University Institute, 2004, pp. 187-198.