Su Concetta e le sue donne ovvero sul comunismo com’era e come non è più

di Concetta Brigadeci

Questo libro di Maria Attanasio non è un’autobiografia, né una biografia; non è un romanzo, forse un’elegia, un poema elegiaco a due voci sull’idea di comunismo praticato e vissuto appassionatamente dalle due narratrici. Il racconto di Cettina La Ferla, capopolo e, a detta di chi la ricorda spregiativamente, pazza, ribelle, perentoria, copre un arco di tempo lungo che va dal ’40, con la dichiarazione dell’entrata in guerra dell’Italia da parte di Mussolini, agli ultimi anni pdiessini in cui si consuma la fine del comunismo. La prima voce narrante, quella di Maria, rievoca il suo progressivo avvicinamento al comunismo anche attraverso le dure lotte operaie dell’Anic di Gela fino all’iscrizione al Pci nei primi anni settanta. Un racconto necessario questo per non dimenticare che anche in Sicilia le donne non stavano a fare i favizzuni, a non far niente, ma anche per ricordare un’idea di comunismo che non è morto, nonostante tutto. E’ per questo che Maria Attanasio scrive il libro, costretta dalla voce imperiosa di Cettina ma anche dalla sua stessa voce che glielo imponeva.

Ho letto il libro di Maria Attanasio, Di Concetta e le sue donne (Sellerio, Palermo 1999) tutto d’un fiato con grande emozione e coinvolgimento personale. Lo spettacolo teatrale omonimo, prodotto da Nave Argo con la regia preziosa di Nicoleugenia Prezzavento e rappresentato al teatro Ariberto a Milano dal 9 al 12 marzo 2017, è un pugno nello stomaco per la forza e la potenza della voce e del corpo dell’attrice, Rita Salonia, che occupa lo spazio della scena con la vitalità disperata di una donna, Cettina La Ferla, che non soccombe a nessuna ingiustizia. Tutto, il movimento delle mani, delle braccia, del busto, delle gambe parlano una lingua antica che risuona dentro e richiama suoni d’altri tempi, figure rimosse che affiorano alla memoria, evocate dalla bravissima polistrumentista Nicoletta Fiorina, quasi un controcanto. L’attrice si immedesima perfettamente in Cettina La Ferla, è una sua reincarnazione. Maria Attanasio ci restituisce una lingua corposa, materiale, aderente a Concetta, alle cose e alle persone che la circondano, ma ci ricorda anche un modo di essere siciliane e siciliani, con questo impasto forte, metaforico, di lingua italiana e dialetto: ammucciuni, scantu, culi chiatti, allicchittati, catoio, fara, rivutura, favizzuni ecc.

Nei romanzi di Camilleri spesso questo pasticcio linguistico crea risata, alleggerisce la tensione ritmica della narrazione, svolge una funzione letteraria. Qui, invece, esso crea emozione, sfonda la piattezza dei culi chiatti della parola e dà profondità al personaggio.

Qualcuno ha scritto di questo libro che dalla lettura se ne esce tramortiti. Ed è vero perché è come un viaggio della memoria soprattutto per quelli che quegli anni li hanno vissuti e quegli ambienti li hanno frequentati, per chi la politica era la propria stessa vita, perché il sogno di un avvenire migliore era vicino, e ci si sentiva forti, invincibili con tutto l’ardore forsennato che si metteva nelle cose.

Questo libro è scritto a due voci, quella di Maria, allora insegnante militante del PCI nei primi anni settanta, e quella di Concetta, la protagonista del libro. Maria, la prima voce, ci parla di questo ondeggiare lento della scrittura, di questo rimando continuo a mettere ordine ai fogli mischiati a «pettini, ritagli di giornali, fatture d’albergo, sigarette sbriciolate» stratificate per mesi nella sua borsa. Questi fogli, portati «appresso come un ospite sgradito, un clandestino, […] risalirono dal fondo della borsa insieme all’accendino» nel silenzio del deserto di Layonne, sotto l’assalto tempestoso del vento marocchino del suruk e di una vertigine che non l’abbandonava. Le parole, così, si fanno incudine per martellare una memoria rimossa che teme le “autocelebrazioni” autobiografiche, ma che vuole esplodere, far schizzare pezzi della propria storia personale che fa fatica a raccontare.

E di quegli anni così racconta Maria:

All’inizio degli anni settanta tutto nel Picci vitalmente interferiva: braccianti, ceto medio, studenti, operai, e le donne in cui, dentro e fuori il partito, cominciava a definirsi insieme alla coscienza, anche il rifiuto della loro invisibilità storica.

Nella struttura fortemente maschilista del Picci le donne iscritte erano in generale poche: protetti fiori rossi all’occhiello delle sezioni; se però aumentavano, cercando propri spazi di aggregazione e intervento, apparivano una scardinante minaccia da controllare o da espungere.

Sono gli anni della contestazione giovanile che, dopo il 1967, dagli Usa contagerà l’Europa, provocando rotture importanti all’interno della sinistra ma che contagerà soprattutto Cettina La Ferla che dalle immagini televisive della contestazione in Cina e in Usa tira fuori, come un fuoco a lungo compresso, la sua passione per la politica. Passione ereditata dal padre accanito antifascista che proprio per fare uno sgarbo al regime non vuole figli maschi ed è contento di questa sua unica figlia che, a dispetto della moglie, educa come un maschio e a cui insegna ad usare le armi per andare a caccia, perché può essere sempre utile. Passione esercitata a 13 anni nella vigilanza con il fischietto fuori dalla casa dove il padre e altri antifascisti di Caltagirone si riunivano clandestinamente. Una buona guardia la sua, perché riesce ad allontanare i questurini che volevano entrare. E poi ancora nel ’45, a 15 anni, il suo primo comizio con la guerra ancora in corso quando la Sicilia è infiammata dal movimento tutto femminile dei “Non si parte!” per impedire la partenza in guerra degli uomini di leva, in un Sud già liberato. Perché ai siciliani sembrava che con lo sbarco in Sicilia degli alleati la guerra fosse finita. Cettina è in prima fila nei comizi a Caltagirone e nei paesi vicini con il Piccì per un mondo migliore.

E tutto per lei è politica, anche l’amore per il compagno Sforzo non può essere declinato che politicamente e contenuto con il rigore che l’agire politico prevede. Una concezione della politica la sua che non ammette il privato nei suoi confini. Il marito sarà chiamato pubblicamente sempre il compagno Sforzo, e quando le compagne di Catania incominciano a parlare di sessualità, la compagna La Ferla ne è inorridita. Non è questa la “sua” politica. Non è questo che le donne di Caltagirone chiedono. I bisogni delle donne di Caltagirone sono altri: l’acqua che non c’è, le fogne assenti, la posta che non funziona. E’ per questo che le donne dei quartieri popolari vanno a casa sua, lei è nel direttivo del PCI, e le chiedono di aiutarle, sostenerle nella conquista dei bisogni primari. E vincono la loro battaglia.

Concetta La Ferla però non ne vuole sapere di curtigghi tra amiche, perché la politica è altro. Eppure si arrabbia quando per strada le compagne sono chiamate bbuttane e i compagni curnuti e complici, e al congresso cittadino del Pci quando un compagno, disturbato dalla presenza ingombrante di una compagna, grida: «Spostati bbuttana!», succede il finimondo.

E Concetta tocca con mano l’opposizione netta dei compagni, in primis del segretario del partito, manichino di salotto, alla formazione di una sezione femminile autonoma, di cui lei è la segretaria, la prima in assoluto in tutta Italia, siamo alla fine degli anni ’60, e prima che nascesse il movimento femminista. Una conquista anche questa, la separazione della sezione femminile da quella maschile, sostenuta dalle compagne del nazionale ma non dal picci di Caltagirone.

Ma Cettina la pagherà questa sua “prepotenza”. Sara via via esclusa dal partito fino alla rottura voluta da lei.

A distanza di anni Cettina, reduce da una malattia, consegna a Maria le sue memorie, per ricordare un’idea di comunismo che non aveva paura di sporcarsi le mani nei quartieri popolari, ora che il picci non esiste più e i culi chiatti hanno vinto.