In questo bel libro, tanto approfondito quanto piacevole da leggere, Marina D’Amelia ricostruisce con perizia storica le tappe che hanno segnato l‘invenzione dello stereotipo della mamma italiana. A partire dal Risorgimento fino alla conclusione della seconda guerra mondiale, vediamo comporsi il quadro di una tradizione che procede quasi indisturbata fino a dentro le pieghe delle vite di noi contemporanee.

La mamma è quasi un marchio di italianità, una griffe, un prodotto geografico tipico. L’autrice analizza al microscopio la formazione degli elementi che nell’insieme concorrono a definirlo, a partire dal suo ingrediente caratteristico, il “mammismo”. Termine che appare per la prima volta negli anni Cinquanta e che sta ad indicare “la madre fanatica sostenitrice del figlio maschio, che protegge ed alleva con dedizione esclusiva”.

L’autrice ricostruisce la genesi e la messa in circolo degli stereotipi del femminile materno, su tutti quel “sentimento avido di sacrifizii” messo a punto secoli fa che ancora palpita nel cuore di tante donne (sempre meno?) sotto la patina dell’emancipazione.

Fonti della ricerca sono i memoriali, la pubblicistica, le lettere scambiate tra madri e figli maschi impegnati in eroiche imprese (guerre, perlopiù).

Il racconto procede secondo la scansione classica: le battaglie risorgimentali, le guerre d’indipendenza e l’unità d’Italia, l’età liberale, la Grande guerra, il fascismo, la seconda guerra mondiale e la Resistenza.

Incontriamo così le madri risorgimentali, “le pioniere che coscientemente dettero vita a una simbiotica complicità con i figli maschi”;  le suffragiste, che tentarono di volgere in azione e rivendicazione politica le virtù materne confezionate dalla tradizione; le mamme di giovani figli lanciati con fervore nella Grande guerra dalla retorica del virilismo, gli stessi figli che poi, fragili e impauriti, scrivevano lettere da un fronte ben più orribile che eroico; la “vera mamma” del cattolicesimo e la mamma sotto il fascismo, custode della moralità delle figlie femmine; fino alle madri in fila per la razione di cibo nelle città bombardate, e le partigiane, allo stesso tempo mamme e compagne di lotta dei propri figli.

Incontriamo in questo libro anche chi, avendo la cultura dalla parte del manico, ha definito le regole dell’essere mamma. Come, ad esempio, Paolo Mantegazza, un “campione della doppia morale”, che con la sua Fisiologia del piacere definisce “il codice dell’amore materno”, o come il De Amicis autore di Cuore, cui dobbiamo le prime narrazioni di un fenomeno nuovo, il puerocentrismo – perché anche “il figlio”, come “la mamma”, è una concrezione storica cangiante nel tempo. Nel trattare questi ed altri scrittori l’autrice valorizza l’elemento biografico. Ne delinea infatti il rapporto con la madre e lo mette in rapporto con l’opera. Così anche per Niccolò Tommaseo, precettore delle mamme cattoliche. Subire in silenzio è la regola aurea per la mamma, che

“non dice mai le sue ragioni, anche sapendo d’averle. Si rassegna a parere d’essere dalla parte del torto, come a proprio destino, e ad abito della sua vita”. “I dolori che riceve, li imputa a suoi peccati”.

Che cosa è dato, in cambio, alle donne che si immolano sull’altare del sacrificio materno? Prende forma alla fine del Settecento, si intensifica nell’Ottocento e continua nel Novecento la missione assegnata alle madri dal cattolicesimo e cioè il ruolo di educatrici e prime alfabetizzatrici.

La funzione di “educatrice-forgiatrice” è rafforzata dagli input del positivismo, che si propagano attraverso il romanzo verista italiano, imponendo alle madri, per esserlo al meglio, di acquisire competenze scientifiche. Nozioni di igiene, dieta, ginnastica non possono mancare alle mamme. L’autrice sottolinea come l’”impressionante numero di titoli sull’allevamento dei bambini nei primi del Novecento” renda manifesta un’inedita complicità, quella fra medico e madre. Attenzione, perché il contesto in cui si generano gli imperativi del nuovo impegno materno non è soltanto la lotta alla mortalità infantile, ma anche la preoccupazione sempre più diffusa per il “miglioramento della razza“. Quando il regime fascista vorrà farsene carico in proprio escludendo le madri, incontrerà, non a caso, il loro muto ma tenace rifiuto.

La prospettiva del codice materno è foriera di significati anche per quanto riguarda la stagione della seconda guerra mondiale e della Resistenza. Una stagione – scrive D’Amelia – dal profumo Ottocentesco, risorgimentale. Qui compaiono, accanto agli scrittori, anche le scrittrici. Se gli uni rimangono inchiodati all’unica “vocazione mitopoietica” della madre che salva ma anche uccide, le altre prendono distanza dallo stereotipo e costruiscono “un ventaglio di fisiononomie” attraverso cui scansano il rischio di idealizzazione a favore delle donne reali.

Nel comporre e rileggere le fonti, l’autrice rende visibili nessi importanti. Qui ne evidenziamo uno, cioè il rapporto tra ostracismo contro le donne che lavorano fuori casa, rappresentazione dell’onnipotenza materna, condizionamento delle madri sullo sviluppo e sui comportamenti dei figli. Una lezione di storia che serve nel presente a liberarsi dal giogo de “la mamma” in cerca di una via libertaria alla maternità, quella che un’altra storica, Emma Baeri, ha definito “il governo della simbiosi”.

E. Cirant

La mamma

di Marina D’Amelia
ed. Il Mulino, 2005

331 p.; 14.50€