Questo articolo di Barbara Petrucci è stato pubblicato su Leggendaria luglio/2014 e prende spunto dell’iniziativa che si è svolta l’11 marzo all’Unione femminile nazionale

La serva padrona

«Serpina vuol cosi!». Con queste imperiose parole la protagonista de La serva padrona mette le cose in chiaro fin dal 1733 quando, disegnata dalle parole di Gennarantonio Federico e dalla musica di Giovanni Battista Pergolesi, entra in scena per la prima volta. La serva padrona è un intermezzo, non un’opera, e per questo la sua struttura è ridotta all’osso: ci sono solo due personaggi (più un terzo, muto) che cantano, o per meglio dire battibeccano sulla musica ora pungente ora insinuante del ventitreenne compositore.

Serpina, canonica servetta dotata già nel nome di astuzia viperina, si confronta col Dmitry_Levitzky_001brontolone Uberto e, fin dalle prime battute, non c’è dubbio alcuno su come andrà a finire: la serva sposerà il principale e diventerà padrona. Serpina è una femminista? È sempre rischioso interpretare il passato con le categorie della nostra epoca; di sicuro la ragazza combatte con le unghie e coi denti per superare lo stato di subordinazione che la sua condizione di donna e di proletaria le ha imposto. La battaglia si combatte su due fronti – donna contro uomo e povertà contro ricchezza – con tutte le armi a disposizione: finte, strilli, blandizie e travestimenti. Figaro non avrebbe saputo fare di meglio.

Il barbiere di Siviglia

Nel Barbiere di Siviglia di Beaumarchais (fonte comune delle almeno sette versioni operistiche, tra cui le più famose di Paisiello, 1782 e Rossini, 1816) alla protagonista manca la spinta sociale di Serpina. Rosina appartiene allo stesso ceto di Don Bartolo, e il suo stato di soggezione è proprio dell’essere donna, sotto tutela e in procinto di essere maritata contro la sua volontà. Secondo il luogo comune sull’astuzia femminile, la dolce fanciulla, apparentemente indifesa, è capace di ogni sotterfugio. Rosina, come tante sue colleghe di altre opere teatrali, è un’esperta di pensiero laterale: sapendo di non poter vincere con una opposizione frontale, piega la tattica, aggira l’ostacolo e sconfigge il titolare della cieca autorità.

Io sono docile, son rispettosa,
sono ubbidiente, dolce, amorosa,
mi lascio reggere, mi fo guidar.
ma se mi toccano qua nel mio debole, sarò una vipera,
e cento trappole prima di cedere farò giocar.
[atto I, scena V]

http://it.wikipedia.org/wiki/Le_nozze_di_Figaro#mediaviewer/File:Nozze_di_Figaro_Scene_19th_century.jpg

Le nozze di Figaro

Gli anni passano, ne Le nozze di Figaro di Mozart Rosina e il Conte di Almaviva sono sposati da tempo; Figaro, abbandonata la libertà di barbiere e factotum free-lance, è ora il cameriere personale del Conte e sta per impalmare Susanna, pari ruolo presso la Contessa.
Ecco, Susanna è forse la prima in questa galleria di personaggi a poter essere definita femminista.
Ha la determinazione di Serpina, ha la passione della giovane Rosina e ha anche qualcosa in più: la consapevolezza di sé; si abbandona alla femminilissima gioia di cucirsi un bel cappellino vezzoso e nello stesso tempo è pratica e razionale. È lei ad accorgersi del subdolo piano del Conte che, stanco della sua sposa, vuole ripristinare lo jus primae noctis a danno proprio di Susanna; Figaro, con tutto il suo passato di maestro di stratagemmi, non l’aveva capito.
L’ingegnosa cameriera, lucida e fredda, dipana la trama degli inganni e dei travestimenti che vedrà alla fine due nette vittorie: quella della Contessa sul fedifrago Conte (che magnanima perdonerà); e quella della stessa Susanna sui dubbi e i sospetti del contrito Figaro.

Susanna è piena di dignità, non è una arrampicatrice sociale, è sicura di sé e del suo status, non perde neanche un minuto ad autocommiserarsi, e guarda a testa alta chi, secondo le regole sociali, dovrebbe esserle superiore, come marito (Figaro) o come padrone (il Conte).

Così fan tutte

Le nozze di Figaro debutta nel 1786. Quattro anni dopo, Mozart mette in scena Così fan tutte su libretto di Lorenzo Da Ponte, che aveva già firmato il precedente; stavolta però l’argomento non viene da Beaumarchais, ma addirittura, seppur alla lontana, da un fatto realmente accaduto.
Nella complessa messinscena organizzata da Don Alfonso per dimostrare ai due amici che le loro fidanzate, come tutte le donne, non riusciranno a mantenersi fedeli, la sedia dell’aiuto-regista è occupata dalla cameriera Despina. All’inizio considerata solo una prezzolata e necessaria complice, la servetta ribalta il suo ruolo subordinato e si fa essa stessa burattinaia.

Che vita maledetta
è il far la cameriera!
Dal mattino alla sera
si fa, si suda, si lavora, e poi
di tanto che si fa nulla è per noi.
[atto I, scena VIII]

La sua condizione è dura, ma Despina ha le idee chiare e ha imparato fin dalla più tenera età le regole per cavarsela con disincantato pragmatismo. Quando le padrone Dorabella e Fiordiligi si disperano al pensiero di perdere i loro amanti, Despina le invita a rendere pan per focaccia agli uomini traditori:

Paghiam, o femmine,
d’ugual moneta
questa malefica
razza indiscreta:
amiam per comodo,
per vanità!
[atto I, scena IX]

Ma l’esposizione del suo codice di comportamento arriva chiaro e tondo all’inizio del secondo atto:

Una donna a quindici anni dée saper ogni gran moda,
dove il diavolo ha la coda, cosa è bene e mal cos’è;
dée saper le maliziette che innamorano gli amanti:
finger riso, finger pianti, inventar i bei perché;
dée in un momento dar retta a cento;
colle pupille parlar con mille;
dar speme a tutti, sien belli o brutti;
saper nascondersi senza confondersi;
senza arrossire saper mentire;
e, qual regina dall’alto soglio,
col «posso e voglio» farsi ubbidir.
[atto II, scena I]

220px-Gaetano_Donizetti_2È femminismo? O non piuttosto istinto di sopravvivenza? Si piegano le convenzioni sociali a proprio vantaggio e si compensa con l’astuzia l’inesorabile stato di inferiorità insito nel nascere donna.

L’elisir d’amore

La consapevolezza di sé torna in un’altra protagonista, non a caso anche lei di condizione agiata: la Adina de L’elisir d’amore (1832). Gaetano Donizetti dà vita a tanti affascinanti personaggi femminili e li tratta con tenerezza, passione, dolcezza, mai con condiscendenza. Non fa eccezione con Adina, certo non una eroina tragica, che descrive con affettuosa e quasi ammirata levità.
Adina è giovane, bella, ricca, indipendente e persino istruita. Si muove nella sua cerchia villereccia di spasimanti come in una commedia alla Lubitsch. Si fa beffe del tronfio sergente Belcore:

Vedete di quest’uomini,
vedete un po’ la boria!
Già cantano vittoria
innanzi di pugnar.
Non è, non è sì facile
Adina a conquistar.
[atto I, scena II]

Mentre si rivolge a Nemorino con evidente simpatia, nonostante tenga fede per puntiglio alla fama di capricciosa che si è ella stessa creata.

Odimi. Tu sei buono,
modesto sei, né al par di quel sergente
ti credi certo d’ispirarmi affetto;
così ti parlo schietto,
e ti dico che invano amor tu speri:
che capricciosa io sono, e non v’ha brama
che in me tosto non muoia appena è desta.
[atto I, scena III]

Per continuare col paragone hollywoodiano, Adina ha la leggerezza e il piglio di una Katharine Hepburn: cederà alla fine, ma alle sue condizioni, senza perdere nulla della propria fisionomia di donna forte e ironica, e possiamo essere sicuri che Nemorino vivrà in futuro felice e contento, fermamente guidato dalla consorte.
L’elisir d’amore è un capolavoro assoluto; non c’è una nota o una parola di troppo. Felice Romani e Gaetano Donizetti meritano eterna gratitudine per aver creato questo microcosmo in cui si muovono con perfetto equilibrio le danzanti figurine di Adina, Nemorino, Dulcamara e Belcore.
Ma in teatro non tutto è commedia; anche Melpomene reclama la sua parte e lo fa nel modo più truculento possibile delineando terribili personaggi di madri infanticide (o quasi).

Medea

Medea è una figura archetipica e non c’è bisogno di ingrossare i fiumi d’inchiostro già versati sull’argomento. L’interpretazione che ne dà Luigi Cherubini nel 1797 è un vero punto di svolta nella storia del melodramma, ed è un peccato che in questa sede, per evidenziarne i tratti, non si possa ricorrere alle note, dato che il libretto di F.B. Hoffmann è indubbiamente inferiore alla musica che lo intona.
Pur se il suo atto rappresenta l’Imperdonabile Assoluto, bisogna riconoscere a Medea l’attenuante della provocazione gravissima:

Falsa è la tua parola e ben crudel: indegna di Giason!
Ricordi il giorno tu,la prima volta quando m’hai veduta?
Sognato abbiam celesti gioie in terra, insiem legati in sacro eterno amor!
Non io vegliai allor a tua difesa?Non io spezzai de’ tuoi nemici il vanto?
Non mio fratello a te sacrificai? Giasone ascolta! Senti, senti ancor!
Dei tuoi figli la madre tu vedi vinta e afflitta,
fatta trista per te e pur da te proscritta! […]
Ero felice allor, avevo un padre, un nido:
ho dato tutto a te! Torna sposo per me!
Crudel! Crudel!…
[atto I]

Soffrir non posso, troppa è l’offesa!
Si vuol ad una madre i figli strappare!
L’onta ho sofferto d’una menzogna;
l’esilio ancor nulla è per me!
Sol a uno strazio regger non posso:
che ai figli s’apprenda d’odiare la madre
è tale dolor che soffrire non so!
[atto II]

Tutti conosciamo il feroce epilogo e, se ci lascia attoniti la disperazione di Medea, non possiamo che provare disprezzo per Giasone.

Norma

Nel 1831Vincenzo Bellini e Felice Romani arrivano a un passo dal descrivere un altro infanticidio.
Anche Norma è tentata dal gesto estremo, ma si ferma in tempo:

(Norma con una lampada e un pugnale alla mano.
Siede. È pallida, contraffatta)
Dormono entrambi… non vedran la mano
che li percuote. Non pentirti, o core;
viver non ponno… Qui supplizio, e in Roma
obbrobrio avrian, peggior supplizio assai;
schiavi d’una matrigna. Ah! No! Giammai!
(sorge risoluta)
Muoiano, sì.
(fa un passo e si ferma)
Non posso avvicinarmi.
Un gel mi prende e in fronte
mi si solleva il crin. i figli uccido!…
(intenerendosi)
Teneri figli. Essi, pur dianzi
delizia mia, essi nel cui sorriso
il perdono del ciel mirar credei…
ed io li svenerò?… di che son rei?
(silenzio)
Di Pollione son figli…
ecco il delitto. Essi per me son morti!
Muoian per lui:
e non sia pena che la sua somigli.
Feriam…
(s’incammina verso il letto; alza il pugnale;
dà un grido inorridita; al grido i fanciulli si svegliano)
Ah! no! son miei figli!… miei figli!
(li abbraccia piangendo amaramente)
[atto II, scena I]

Norma sceglierà di sacrificare se stessa anziché vendicarsi attraverso i figli. E anche Pollione darà di sé prova migliore rispetto a Giasone.

Sofonisba

AgnesiI personaggi incontrati finora sono complessi e affascinanti e sembrano presentare tutte le sfaccettature della personalità femminile. Sono però segnati da un peccatuccio originale: hanno padri in quantità, ma nessuna madre. Uomini i librettisti, uomini i compositori; per quanto solidale e rispettosa possa essere la loro fantasia, mettono in scena le donne così come se le immaginano.

Ecco quindi una donna concepita da una donna. Teresa Agnesi (1720-1795) fa tutto da sé, è compositrice e librettista e ci offre una grande eroina tragica nella sua Sofonisba, composta intorno al 1748 e, purtroppo, mai andata in scena. L’opera è dedicata all’imperatore Francesco I in occasione dell’onomastico della consorte Maria Teresa, il 15 ottobre. La vicenda (uno dei pochi libretti settecenteschi senza lieto fine) si sviluppa durante la seconda guerra punica: Sofonisba, miglie di Siface re di Numidia, viene presa prigioniera da Scipione e scelta come sposa da Massinissa, suo antico fidanzato alleato dei Romani. Lacerata tra due lealtà e due mariti, temendo la prigionia in mano nemica, si dà la morte col veleno. Nonostante non sia certo il più beneaugurante degli omaggi ad una regina, il personaggio, drammaticamente interpretato da un contralto, si distingue per la forza, la responsabilità verso i sudditi e la capacità di decidere autonomamente il proprio destino: tratti degni dell’imperiale destinataria.
Nell’ultimo potente recitativo accompagnato Sofonisba morente si rivolge a Scipione:

E tu vedi e racconta alle spose Romane
qual sanno ad onta dell’iniquo fato
porre alla vita glorioso fine le Africane regine. […]

Il condottiero e gli altri astanti esclamano: Oh sorte! Oh coraggio! Oh valor! Oh giovanezza! Oh beltà degna di miglior destino! Sofonisba riprende:

Già s’appressa il fatal momento estremo,
Già mi s’oscura il dì, agghiaccio e tremo,
innanzi l’ara dei paterni dèi voglio l’alma spirar;
abbia almen questa sciolta dal corpo infin, abbia sua pace …

Il campionario della soggezione femminile non sarebbe completo senza due personaggi paradigmatici: la monaca e la cortigiana.

Trittico

Suor Angelica, su libretto di Giovacchino Forzano nel Trittico di Giacomo Puccini (1918), è tre volte vittima: delle regole sociali che non perdonano la sua maternità, della perfida Zia Principessa, della sua stessa disperazione.

Suor Angelica
Sorella di mia madre, voi siete inesorabile!
La Zia Principessa
Che dite? E che pensate? Inesorabile? Inesorabile?
Vostra madre invocate quasi contro di me? Contro di me! […]
per voi ho serbata una parola sola: Espiare! Espiare!
Offrite alla Vergine la mia giustizia!
Suor Angelica
Tutto ho offerto alla Vergine, sì, tutto; ma v’è un’offerta che non posso fare:
alla Madre soave delle Madri, non posso offrire di scordar… mio figlio!
Mio figlio! Mio figlio, il figlio mio! Figlio mio!
La creatura che mi fu strappata! […]
Parlatemi di lui! di mio figlio… mio figlio,
parlatemi… di lui…
(La vecchia tace, guardando la madre in angoscia.)
Suor Angelica (con ansia tragica)
Perché tacete? Perché? Perché? […]
La Zia Principessa (freddamente)
Or son due anni, venne colpito
da fiero morbo. Tutto fu fatto per salvarlo…
Suor Angelica
È morto?
(La zia curva il capo e tace.)
Ah!

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La Traviata

Se il convento di Suor Angelica è fisicamente una prigione, altrettanto opprimenti sono le catene della pubblica virtù che Giuseppe Verdi e Francesco Maria Piave forgiano nel 1853 per La Traviata.
La scena madre avviene quando a casa di Violetta arriva Giorgio Germont, il padre di Alfredo. In un trionfo di ipocrita perbenismo fa la sua richiesta:

Pura siccome un angelo iddio mi diè una figlia;
se Alfredo nega riedere in seno alla famiglia,
l’amato e amante giovane, cui sposa andar dovea,
or si ricusa al vincolo che lieti ne rendea…
deh, non mutate in triboli le rose dell’amor.
Ai preghi miei resistere non voglia il vostro cor.

Non si sa se disprezzare di più il vecchio oppure “l’amato e amante giovane” pronto a darsela a gambe al primo odore di scandalo…

Non vale ripetersi che probabilmente Germont non ha neanche tutti i torti, che un simile legame rappresenterebbe veramente la morte civile per tutta la famiglia. La tentazione di attraversare di corsa la platea e prendere a schiaffi il maturo genitore è fortissima, la frustrazione e il senso di ingiustizia acuiti dalle successive, fin troppo nobili, parole di Violetta:

(Così alla misera ch’è un dì caduta,
di più risorgere speranza è muta!…
se pur benefico le indulga iddio,
l’uomo implacabile per lei sarà…)
Dite alla giovine sì bella e pura
ch’avvi una vittima della sventura,
cui resta un unico raggio di bene…
che a lei il sacrifica e che morrà!
[atto II, scena V]

Turandot

Una così nutrita schiera di donne oppresse invoca una giustiziera. Per trovarla dobbiamo andare fino a Pechino, dove Giacomo Puccini ha situato la sua ultima eroina, la sanguinaria Turandot, arrivata ai librettisti G. Adami e R. Simoni via Gozzi e Schiller.
La principessa cinese ci racconta essa stessa il perché del suo odio per gli uomini:

In questa Reggia, or son mill’anni e mille,
un grido disperato risonò.
E quel grido, traverso stirpe e stirpe
qui nell’anima mia si rifugiò!
Principessa Lo-u-Ling,
ava dolce e serena che regnavi
nel tuo cupo silenzio in gioia pura,
e sfidasti inflessibile e sicura
l’aspro dominio, oggi rivivi in me![…]
E Lo-u-Ling, la mia ava, trascinata
da un uomo, come te, straniero,
là nella notte atroce,
dove si spense la sua fresca voce![…]
O Prìncipi, che a lunghe carovane
d’ogni parte del mondo
qui venite a gettar la vostra sorte,
io vendico su voi, quella purezza,
quel grido e quella morte!…
[atto II]

Solo nell’anno in corso, Turandot ha fatto fuori tredici pretendenti: il principe regal di Samarcanda, l’Indiano gemmato Sagarika, il Birmano, il prence dei Kirghisi, il Tartaro dall’arco di sei cubiti, il principe di Persia eccetera eccetera.

A qualcuno la storia di Lo-u-Ling è sembrata troppo remota per giustificare un tale desiderio di vendetta. C’è chi propende per una causa endogena, una patologica frigidità che porterebbe la principessa a questo comportamento da serial killer. Certo l’atteggiamento di Turandot si ricollega al mito greco di Atalanta, anche lei avvezza ad uccidere i pretendenti battuti nella corsa, e ad altre leggende simili, tra cui la storia della principessa Datmà (narrata nelle Mille e una notte) che affrontava i pretendenti in torneo a lancia e spada e marchiava a fuoco gli sconfitti.
La sostituzione del confronto fisico con gli enigmi porta a livello cerebrale il gioco della vita e della morte. Turandot si staglia bella e terribile. Quanta distanza dalla povera Serpina, che in fondo voleva solo una casa accogliente e un marito devoto!

Stizzoso, mio stizzoso
voi fate il borïoso,
ma non vi può giovare.
Bisogna al mio divieto
star cheto, e non parlare.
Zit… Zit… Serpina vuol così.

(Barbara Petrucci)

 

Barbara Petrucci è nata a Roma. Ha studiato in Italia e in Austria. I suoi maestri sono stati la pianista Delia Pizzardi, i clavicembalisti Emilia Fadini e Gordon Murray, il musicologo Claudio Gallico. In trentasette anni di attività ha suonato come solista e continuista al clavicembalo e al fortepiano in tante città d’Europa, negli Stati Uniti, in America Latina, Russia, Turchia, Yemen, e in produzioni per radio e televisioni italiane e straniere; ha registrato vari CD dedicati al Settecento francese e italiano.
All’attività esecutiva affianca quella pubblicistica, firmando articoli e recensioni su quotidiani e riviste di settore, e quella di ricerca, dando largo spazio nelle sue interpretazioni a brani d’epoca recuperati nella stesura originale. Tiene seminari e corsi sul repertorio pre-classico solistico e da camera.
Da molti anni studia le antiche compositrici, in particolare Teresa Agnesi, di cui, insieme a Pinuccia Carrer, ha curato l’edizione critica delle opere per tastiera e a cui, sempre con P. Carrer, ha dedicato un completo saggio biografico.
Dal 1982 è docente di clavicembalo nei conservatori italiani; dal 1994 è titolare della cattedra al conservatorio “Niccolò Paganini” di Genova, dove insegna clavicembalo, tastiere storiche e basso continuo.