Altre stelle. Un viaggio nei centri antiviolenza (Mimesis, 2017)

Che cosa fa l’operatrice di un centro anti-violenza, quali motivazioni animano il suo lavoro, quali ostacoli lo frenano, che tipo di relazione allaccia con le donne che si rivolgono al centro in cerca di aiuto: è questo il filo conduttore del libro di Luca Martini, esperto di organizzazione e gestione delle risorse umane, e del suo “viaggio” nei centri antiviolenza di Rimini, Bolzano, Brescia, Lucca, Catania e L’Aquila.

Altrettanti luoghi in cui l’autore entra come in punta di piedi, e che ci racconta attraverso le testimonianze delle operatrici. Per arrivare al “Centro” attraversiamo dunque giri di scale, atrii in penombra, stanzette. Vi siamo introdotte attraverso la descrizione del territorio e la luce degli ambienti, pennellati anche da uno sguardo non oggettivante ma “in soggettiva”. Entriamo, infine, in contatto le donne che vi si dedicano. Un movimento “underground”, come scrive Anna Pramstrahler nella post-fazione:

«I Centri Antiviolenza in Italia sono come fossero un movimento “underground”, se non ne hai bisogno a livello personale o di rete di conoscenze, rimangono una realtà sconosciuta. Non c’è visibilità e non suscita interesse la loro esistenza nella comunicazione di massa» (p. 110).

È un lavoro, non riconosciuto dalle istituzioni

Legato a stretto nodo con l’invisibilità dei Centri è il problema cruciale dei finanziamenti. I Centri antiviolenza sono allo stesso tempo necessari e scomodi poiché rispondono a un bisogno diffuso ancorché indicibile, quello della violenza esercitata dagli uomini sulle donne nell’ambito perlopiù di relazioni amicali e familiari. Mentre leggo il libro ripenso con irritazione ai bei discorsi pieni di enfasi e indignazione, come quello di Elena Boschi, ministra delegata per le pari opportunità, il 25 novembre scorso alla Camera dei deputati. Ma nella pratica, la politica delle istituzioni, che fa?

«Ed eccolo il punto chiave; la carenza di interesse concreto, diffuso e continuativo da parte dell’istituzione politica, specialmente nazionale, ha fatto sì che nel tempo l’azione culturale e operativa dei Centri Antiviolenza italiani si riducesse a un fatto personale, a una iniziativa particolare di alcune donne. Per conseguenza, diventa più facile istituzionalmente giustificare la mancanza di politiche e finanziamenti pubblici», è il commento di Luca Martini alla testimonianza di Vita, del Centro Thamaia di Catania: «Io, come le altre mie colleghe del Centro, dedico a questa attività anche otto, a volte dieci ore al giorno, tra accoglienza, progetti e attività correlate. Quando ci sono i fondi di qualche bando, siamo retribuite, ma la retribuzione può essere considerata solo un rimborso spese. È chiaro che la mia personale progettualità è condizionata da questa situazione» (p. 79-80).

Il problema concreto e che ricorre in tutte le testimonianze è come garantire continuità alle attività dei Centri, che vanno dall’ascolto telefonico all’accoglienza, dalle case protette ai corsi di formazione e di autoformazione. Troppo spesso i centri si basano sul volontariato non per scelta politica, ma per mancanza di risorse.

«Questo è un lavoro, dobbiamo studiare, tenerci informate. Noi investiamo personalmente in questo lavoro e quindi l’essere retribuite è una giusta conseguenza» (p. 42)

afferma Stefania, dell’Associazione Gea di Bolzano, dove le operatrici sono tutte retribuite anche perché fin dal 1989 una legge provinciale prevede l’erogazione di finanziamenti diretti a favore dei centri che si occupano di donne in situazioni di violenza. Una quadro «eccezionale» nella realtà italiana, cui partecipano più soggetti, istituzionali e non, che rende possibile agire anche in ambito minorile.

Il femminismo, ospite ingombrante

Le difficoltà materiali dei Centri antiviolenza sono il corrispettivo di costruzioni – e ostruzioni – simboliche. Il percepito dei Centri antiviolenza come luoghi “underground” popolati da gente strana, femministe scatenate e donne con problemi che non riescono a separare l’amore dalle botte, esiste anche qui, nella evoluta Bolzano.

«Pare proprio che noi si debba spiegare che non siamo animate da sentimenti contro gli uomini, non siamo esseri asociali, possiamo ma non siamo necessariamente omosessuali, abbiamo figli, non siamo contro alcuna forma di femminilità consapevole; possiamo, se ci va, metterci i tacchi o truccarci o cambiare acconciatura ogni mese. Cioè dobbiamo giustificare un ruolo sociale […]» spiega Sabrina, dell’Associazione Gea (p. 39).

  La difficoltà è di far comprendere che la violenza contro le donne va inserita nel tema più ampio della questione di genere.

«Ci sono molte donne che riconoscono che la violenza contro le donne sia ovviamente sbagliata ma che non esista un problema di genere, un contesto più ampio nel quale il maschile si propone di controllare il femminile. Quando si arriva qui il discorso si fa più difficile, il femminismo diventa un ospite ingombrante. E il contrappasso diventa che le donne sono violente non fisicamente ma psicologicamente», continua Sabrina, e Mirca interviene: «come se si dovesse trovare un colpevole di pari peso nel genere, il maschio è violento e la donna è perfida» (p. 39).

Anche io – come Sabrina, Mirca e altre migliaia di attiviste – ho ottenuto troppe volte risposte come questa: «l’uomo è violento e la donna perfida». Se pari sono, nel difetto e negli eccessi, perché fare tragedie? Altrettante volte abbiamo provato a rispondere, come Mirca e Sabrina, che azzerare le responsabilità significa purtroppo non risolvere nessuno dei due problemi, né la violenza maschile (che in Italia uccide una donna ogni tre giorni) né la perfidia femminile (che non ci uccide ma ci guasta la vita). Più utile sarebbe forse indagarle come due lati della stessa medaglia, “la questione di genere” appunto, la questione dei sessi, che li ha posti divisi e asimmetrici sull’asse del potere, sia quello pubblico delle piazze e della distrubuzione delle risorse che quello privato dell’intimità e degli affetti.

La trappola della missione salvifica

A questo tipo di analisi si riferiscono le operatrici dei Centri antiviolenza intervistate da Luca Martini. Molte vengono dall’esperienza del femminismo degli anni Settanta, che ha indagato quanto di potere e di sopraffazione ci fosse anche nell’amore e nella sessualità per arrivare, negli anni Novanta, ad ottenere sul piano legislativo che la violenza sessuale fosse considerata non reato contro la morale, ma contro la persona.

Altre, più giovani che non hanno questo percorso, si sono solo poi «scoperte femministe»:

«Noi abbiamo scoperto di essere femministe solo pochi anni fa, grazie a degli incontri di gruppo con alcune femministe e anche la prima intervista con te, due anni fa, ha contribuito a questa presa di coscienza. Prima lo eravamo ma non ne eravamo consapevoli, forse perché siamo tutte piuttosto giovani. […] del resto anche noi siamo cresciute con una immagine stereotipata del femminismo e delle femministe, abbiamo dovuto crescere anche rispetto a questo valore» racconta Vita, di Catania (p. 82).

Assumere questa prospettiva vuole anche disporsi ad un lavoro di autoanalisi costante. Incluso quello che si deve fare rispetto alle motivazioni che spingono ad operare in un centro antiviolenza.

«Non sono io che decido se posso salvarle, sono le altre che decidono se si vogliono salvare, io posso, come le altre operatici, accompagnarle in questo percorso. Questa della missione salvifica è una trappola che viviamo tutte, ed è lo specchio riflesso del ‘non ci lasceremo mai’ maschile che dispone della donna. Anche voler salvare a tutti i costi, contro l’altrui volontà, è un voler disporre» è la sottolineatura di Paola, di Rimini (p. 29)

Non un servizio, ma una relazione

Anche per questo le operatrici dei Centri anti-violenza che aderiscono alla rete Dire (Donne in rete contro la violenza), di cui le interpellate fanno parte, sostengono chequello che i centri offrono non sia un “servizio”, ma «una relazione che per essere efficace necessita di competenze specifiche» (Piera, Brescia, p. 49).

«Io sono psicologa – spiega Chiara, di Lucca (p. 66) – e specializzata nel colloqui clinico e mi sono resa conto come le modalità di questo colloquio con le donne vittime di violenza abbia regole tutte sue che non studi da nessuna parte».

Fare l’operatice di un centro antiviolenza è dunque sia un lavoro che una relazione in cui bisogna mettere in conto la vergogna e la diffidenza delle donne che chiedono aiuto, ma senza porsi in posizione di superiorità.

«È frequente che queste donne, prima di cercarci, abbiano provato a confidarsi con amici o amiche o parenti senza trovare comprensione e supporto, anzi magari venendo invitate a non esagerare la situazione o a sopportarla. Questo passaggio, per una donna vittima di maltrattamenti, è un momento cruciale perché dietro la mancata denuncia o richiesta di aiuto c’è  spesso la convinzione della donna di non essere creduta, peggio ancora il timore di non essere credibile. Capire che questo è uno spazio loro, che le crediamo, che le rispettiamo, che se vogliono possono restare anonime, per loro queste cose sono fondamentali e sono i primi passi per tornare a riappropriarsi della propria vita» dice ancora Vita, di Catania (p. 74).

E Anna aggiunge: «Capita spesso che queste donne maltrattate vivano addirittura la loro situazione come una colpa, come una debolezza, quasi una sorta di predestinazione per chissà quale errore commesso. Quello che io dico sempre loro in questi casi è che al loro posto ci potrei essere anche io» (p. 77).

Eleonora Cirant

Altre stelle. Un viaggio nei centri antiviolenza
di Luca Martini, prefazione di Riccardo Iacona, postfazione di Anna Pramstrahler
Mimesis, 2017
114 p., 12 €